Secondo le indagini, i dirigenti del gruppo, tra cui Fabio Riva, avrebbero creato una società ad hoc con sede in Svizzera, l’Ilva Sa, per aggirare la normativa (legge Ossola) sull’erogazione di contributi pubblici per le grandi aziende che esportano all’estero. In sostanza, la normativa prevede che le aziende, che hanno commesse estere e però ricevano i pagamenti dall’estero in modalità dilazionata nel tempo, possano ricevere stanziamenti a fondo perduto da una società, la Simest, controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti. L’Ilva, però, non avrebbe potuto avere queste erogazioni, secondo quanto sostiene l’accusa, perché riceveva pagamenti in seguito alle commesse estere con dilazioni a non più di 90 giorni. E così, sempre secondo le indagini, sarebbe stata costituita la società svizzera che prendeva le commesse all’estero e poi si interfacciava con l’Ilva Spa. A quel punto, i pagamenti dalla società svizzera all’Ilva venivano dilazionati nel tempo in modo da poter rientrare nella normativa sulle erogazioni pubbliche. I pm avrebbero accertato una truffa da 100 milioni di euro a partire dal 2007. A tanto ammonta il sequestro operato ieri dalla Gdf di Milano nei confronti di Fabio Riva e degli altri indagati: altri 100 milioni sono stati invece sequestrati alla Riva FIRE.
L’operazione di ieri, riguarda la terza tranche dell’inchiesta della Procura di Milano, coordinata dal pm Francesco Greco e condotta dal Nucleo di polizia tributaria della Gdf di Milano, sul gruppo lombardo. La prima tranche ha invece ipotizzato che il patron Emilio Riva e il fratello Adriano, assieme ad alcuni professionisti, abbiano sottratto soldi alle casse dell’Ilva Spa, nascondendoli in paradisi fiscali e facendoli poi rientrare in Italia attraverso lo scudo fiscale del 2009. La procura ha già sequestrato al gruppo 1,2 miliardi di euro per il reato di frode fiscale, scovando nel paradiso fiscale dell’isola di Jersey altri 700 milioni di euro schermati però da ben 8 trust. La seconda tranche riguarda invece i rapporti tra la holding Rive FIRE e l’Ilva con l’ipotesi di appropriazione indebita ai danni dei soci di minoranza del colosso siderurgico.
Ciò detto, il ritorno di Fabio Riva in Italia potrebbe avvenire già a fine febbraio. Il manager fuggì in Inghilterra un paio di settimane prima di essere colpito da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere che il gip di Taranto, Patrizia Todisco, emise il 26 novembre 2012 nell’ambito dell’inchiesta sull’Ilva, contenente le accuse di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, emissione di sostanze nocive, avvelenamento da diossina di sostanze alimentari, omissione di cautele in materia di sicurezza sul lavoro e corruzione (per le cui imputazioni ha ricevuto un avviso di conclusione delle indagini preliminari lo scorso ottobre).
Una fuga sospetta, tanto da far ipotizzare ai pm di Taranto la presenza di una talpa in procura. Purtroppo, i tempi della giustizia inglese non si sono rilevati così differenti da quelli italiani. Dalla richiesta di estradizione avanzata dai magistrati pugliesi infatti, è passato un anno esatto. Giovedì scorso, presso la Westminster Magistrates Court di Londra, si è svolta l’ultima udienza sul caso. Alle autorità inglesi i magistrati di Taranto hanno inviato una memoria in vista della decisione finale, in cui hanno evidenziato i motivi e la gravità dei reati per cui il numero 2 del gruppo deve essere estradato. I legali di Riva si sono opposti attraverso una memoria, girata anche al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in cui mettono in luce le gravi condizioni di criticità, a partire dal sovraffollamento, presenti nel carcere di Taranto. Vuoi mettere con l’attico di Londra?
Gianmario Leone (Il Manifesto)
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