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Taranto, tutti giù per terra – di Gianmario Leone (TarantoOggi)

TARANTO – Negli ultimi tempi notiamo una certa fibrillazione in quegli ambienti che nel corso degli anni avrebbero dovuto recitare un ruolo di primo piano nella classe dirigente della città. Improvvisamente oggi li ritroviamo ad organizzare eventi o a promuovere iniziative che non hanno più al centro solo e soltanto la grande industria e i suoi progetti invasivi ed altamente inquinanti. Addirittura li ascoltiamo declamare l’esigenza di uscire dalla logica della monocultura dell’acciaio.

Eppure proprio loro, insieme all’indecente classe politica che ha abitato Palazzo di Città negli ultimi decenni, hanno la responsabilità, non solo morale, di aver fatto sprofondare Taranto in un pantano di sabbie mobili dalle quali pare alquanto impervio uscire. Probabilmente i sindacati e Confindustria fanno finta di avere la memoria corta. Molto corta. Ma certamente noi non dimentichiamo la storia degli ultimi anni. Né siamo disposti, come invece pare essersi rassegnata gran parte della città, ad accettare una sorta di amnistia silenziosa nei confronti di tutti coloro che soprattutto negli ultimi 15 mesi hanno mutato improvvisamente e silenziosamente pelle come avviene nei rettili.

Per anni questo giornale ha utilizzato centinaia di pagine, milioni di parole, miliardi di sillabe per invitare la classe politica e dirigente tarantina ad invertire la rotta, iniziando per tempo a pensare e costruire un futuro lontano dalla dipendenza della grande industria per questa città, valorizzando le risorse del territorio e battendosi per reali alternative economiche. Abbandonando logiche di difesa oltranzista e ad oltranza di una realtà industriale oramai troppo obsoleta per poter essere salvata.

Ma non c’è stato niente da fare. Hanno preferito stare dalla parte del più forte credendo di contare davvero qualcosa. E che ciò li avrebbe salvati per sempre. Hanno preferito fare spallucce, deridere chi tentava invano di avvisarli dell’avvicinarsi dell’imminente disastro. Hanno difeso a spada tratta, per anni, i progetti della nuova centrale Enipower, “Eni Tempa Rossa”, “Nuova Cementir Italia” e soprattutto l’Autorizzazione integrata ambientale (AIA) rilasciata all’Ilva nell’agosto del 2011. Come dimenticare la manifestazione del 25 novembre 2011 all’esterno di Palazzo di Città promossa dai sindacati e da Confindustria (il punto probabilmente più basso della loro storia)? Oggi, di tutto questo, non è rimasto più nulla. Enipower ha rinunciato, mollando tutto nelle mani dell’Eni. La Cementir ha deposto nel cassetto il progetto. Ma soltanto perché entrambe hanno convenuto che il guadagno economico da tali operazioni è venuto meno. Tempa Rossa è ancora lungi dal compiersi. Sull’AIA all’Ilva e su tutto quello che riguarda il siderurgico stendiamo un velo pietoso.

E così oggi, come se niente fosse, si accorgono che intorno c’è un deserto che loro stessi hanno contribuito a creare. Con le imprese tarantine fuori dai giochi per quanto concerne i lavori di bonifica delle aree dei Tamburi e dell’area PIP di Statte; idem per i lavori sugli impianti dell’area a caldo dell’Ilva (sui quali si attende ancora di conoscere il piano di lavoro dei tre esperti nominati dal ministero dell’Ambiente), oltre a quelli per la piastra logistica del porto e quelli per Tempa Rossa (il bando fu vinto dall’azienda svizzera ABB). E pensare che per anni non hanno detto una parola sulla moria delle aziende tarantine che il gruppo Riva ha eliminato una dopo l’altra dall’indotto dell’Ilva, salvando soltanto pochi “fidati”, poi chiamati “fiduciari”.

Oggi, dopo anni di ignavia e lassismo, pretendono di essere protagonisti, di recitare un ruolo principale negli infiniti tavoli comunali, provinciali, regionali, interministeriali, nelle cabine di regia in cui si decide il futuro prossimo della città. Chiedono a gran voce di essere tenuti in considerazione, ma sanno di parlare al vento: perché assolutamente poco credibili, ma soprattutto perché abbandonati al loro destino da una classe politica tarantina, forse la peggiore degli ultimi trent’anni. Che ha deciso, vista l’aria che tira e la totale incompetenza di cui è “dotata”, che è meglio subire passivamente e senza fiatare tutto ciò che viene deciso a Roma.

Ma chi pensa che Taranto potrà salvarsi grazie alla prossima, ennesima valanga giudiziaria che arriverà con gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari e dei conseguenti rinvii a giudizio, è sulla strada sbagliata. Chi pensa che il processo (che durerà anni e anni) ai Riva e a tutti i loro sodali potrà indicare una nuova strada, insegue una chimera. Chi crede che un’infrazione europea servirà per costruire un futuro differente, sa di ingannare se stesso e gli altri. Che Taranto cambierà da un punto di vista industriale, economico e sociale, è certo: Ilva, Eni e Cementir chiuderanno, prima o poi. E’ solo una questione di tempo. I lavori al porto dureranno anni. Il destino dell’aeroporto è tutt’altro che definito.

Il tempo, anche se questa può sembrare una battuta poco felice, è dunque tutto dalla parte dei tarantini. Perché questa città, per salvarsi davvero, ha solo una via da percorrere: quella dei rapporti umani. Da ricostruire totalmente in una realtà socialmente difficile, disgregata, sfiduciata, divisa da infiniti litigi e ottuse ed idiote rivalità dovute ad un protagonismo sempre più diffuso e sempre più deleterio. I tarantini hanno bisogno prima di tutto di tornare a guardarsi negli occhi. A ritrovare fiducia prima in se stessi e poi negli altri concittadini. Hanno bisogno di tornare ad abbracciarsi e a sorridersi. Hanno bisogno di far confluire decenni di rabbia e dolore in qualcosa di positivo. C’è bisogno sì di stare insieme, ma anche soltanto per ritrovarsi. Perché senza serenità d’animo, senza fiducia nel prossimo, senza sorrisi, è davvero dura pensare di cambiare una realtà da sempre restia anche soltanto a muovere un passo verso un indefinito cambiamento.

Non si può pensare di costruire un’alternativa, un movimento, bypassando tutto questo. O credendo che un processo così intimo e sociale allo stesso tempo, debba durare il tempo di una stagione. Lo abbiamo scritto innumerevoli volte su queste colonne negli ultimi anni: la storia si cambia nel corso degli anni. Le società mutano nel corso dei secoli. Si può solo essere parte attiva del cambiamento: ma per farlo, prima ancora che avere le idee e coerenza di granito (settore nel quale in tantissimi ancora oggi purtroppo difettano), bisogna avere il cuore e la mente aperti verso gli altri. Solo così si diventa comunità. Poi, soltanto in un secondo momento, si può pensare di cambiare la storia disegnando un futuro diverso. Per tutti. Per noi stessi. E per chi verrà dopo di noi.

 Gianmario Leone (TarantoOggi, 9.10.2013)

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