Questo nuovo e “futuristico” sistema comporterà, come peraltro ampiamente prevedibile, lo stop di un altoforno (non è dato sapere quale, ma forte indiziato è AFO 2, visto che l’azienda non ha fornito date sulla fermata definitiva dell’altoforno e delle quattro batterie, né ha specificato quale altoforno dei quattro che restano operativi) e di quattro batterie coke, il che determinerà un’eccedenza di 400-500 lavoratori. L’azienda ha però tenuto a precisare che non ci saranno esuberi in quanto questi lavoratori saranno ricollocati nei tubifici e nei rivestimenti dello stabilimento siderurgico (che però da mesi lavorano a corrente alternata). Tornando alla parziale nuova attività produttiva, anche ieri è stato ribadito che si è ancora in una fase del tutto sperimentale (che stando alle parole dei dirigenti Ilva pare stia dando buoni risultati in termini di “qualità e quantità”). Ciò nonostante, l’azienda e Bondi preferiscono sbilanciarsi e dare i numeri. Innanzitutto, l’Ilva non ha escluso che in futuro produrrà a Taranto il ferro preridotto che al momento acquista all’estero. Ed ora passiamo ai numeri: con l’uso del ferro preridotto si parla di un 10-20 per cento di risparmio energetico, di 35-40 per cento di abbattimento delle emissioni inquinanti – in quanto l’area che comprendere parco minerali, agglomerato e batterie delle cokerie nelle idee dell’azienda verrà in qualche modo “compattata” – e 300 milioni di euro di risparmi di investimenti, sull’attuazione delle prescrizioni dell’AIA, che non sarà più “necessario” effettuare.
Tutto ciò detto, la domanda che poniamo è la seguente: ma qualcuno si è chiesto se sia davvero fattibile sostituire il carbon coke con il metano? O, stando alle nostre informazioni, si deve parlare dello “shale gas”: meglio conosciuto come “gas da argille, gas metano estratto da giacimenti non convenzionali in argille parzialmente diagenizzate, derivate dalla decomposizione anaerobica di materia organica contenuta in argille durante la diagenesi”. Questo gas in natura è intrappolato nella microporosità della roccia. L’argilla però, è scarsamente permeabile, ragion per cui questi giacimenti “non possono essere messi in produzione spontanea”, come avviene per quelli convenzionali, ma necessitano di trattamenti spesso altamente inquinanti per aumentarne artificialmente la permeabilità in prossimità dei pozzi di produzione.
Da dove intenderebbero andare a prendere questo gas Bondi, Ronchi e i tre esperti nominati dal ministero dell’Ambiente? In Italia, almeno per quanto ci risulta, non ci sono rocce adatte a praticare questo processo (chiamato “fracking”) e i pozzi di idrocarburi sono così detti “stitici”. Tra l’altro, questo trattamento, spesso è legato il rischio di inquinamento della falda idrica. Cos’ il fracking? E’ una fratturazione idraulica, che prevede lo sfruttamento della pressione di un fluido, in genere acqua, per creare e poi propagare una frattura in uno strato roccioso. La fatturazione viene eseguita dopo una trivellazione entro una formazione di roccia contenente idrocarburi, per aumentarne la permeabilità al fine di migliorare la produzione del petrolio o del gas da argille contenuti nel giacimento e incrementarne il tasso di recupero. La fratturazione idraulica è sotto monitoraggio a livello internazionale a causa di preoccupazioni per i rischi di contaminazione chimica delle acque sotterranee e dell’aria. In alcuni paesi l’uso di questa tecnica è stata sospesa o addirittura vietata.
E può anche essere causa di fenomeni sismici che raggiungono anche i 5 gradi della scala Richter. Inoltre in Puglia, dai dati del ministero per lo Sviluppo economico, si evince che la produzione annua di gas da pozzi situati a terra è pari a circa 300 milioni di metri cubi: ad essi vanno aggiunti 850 milioni di metri cubi dalle piattaforme in mare. Troppo pochi, comunque, per l’utilizzo previsto dall’Ilva: ovvero produrre con questo sistema almeno due milioni di tonnellate di acciaio all’anno. La tesi dell’Ilva, inoltre, è stata già bocciata dallo scienziato e climatologo emiliano, Giorgio Nebbia. “Si tratta – ha argomentato Nebbia – di una grossolana semplificazione in quanto il processo comporta problemi di costo monetari, tecnologici (radicale trasformazione dell’acciaieria e modifiche delle strutture portuali)e tecnico-scientifiche, perché l’efficacia dipende dalla qualità dei minerali di ferro e dalla qualità dell’acciaio che verrebbe prodotto”. Più di qualcosa, ancora una volta, non torna.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 26.09.2013)
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