Del resto, per comprendere quanto sta avvenendo in queste ultime ore alla Riva Acciaio, basta semplicemente tornare indietro nel tempo allo scorso 22 maggio. Quando il gip del tribunale di Taranto, Patrizia Todisco, firmò l’ordinanza di sequestro per equivalente, pari a 8,1 miliardi di euro, su richiesta del pool guidato dal procuratore capo Franco Sebastio, titolare dell’inchiesta per disastro ambientale ai danni dell’Ilva Spa, dei vertici della famiglia Riva e di una serie di dirigenti del siderurgico tarantino. Il sequestro record scaturì dal mancato risanamento dei reparti dell’area a caldo, indicati come la fonte dei veleni industriali ritenuti causa di malattia e morte. E da un semplice calcolo: i consulenti dei pubblici ministeri infatti, quantificarono in quella somma l’importo che l’Ilva avrebbe dovuto investire negli anni (a partire dal 1995) per abbattere l’impatto inquinante della fabbrica. Quell’ordinanza, inoltre, prevedeva un qualcosa di molto chiaro e semplice: il sequestro di beni riconducibili alla famiglia Riva e in particolare alla società Riva FIRE Spa. E nell’organigramma della società madre del gruppo lombardo, la Riva Acciaio è controllata al 100% proprio dalla Riva FIRE. Ecco perché il sequestro degli impianti della Riva Acciaio era assolutamente scontato, come ribadito dalla Procura che ha parlato chiaramente di “estensione del provvedimento dello scorso maggio”.
Il gruppo Riva sapeva perfettamente che la Guardia di Finanza avrebbe sequestrato tutto ciò che riportava alla Riva FIRE, con l’obiettivo, peraltro obiettivamente irraggiungibile, di arrivare a mettere le mani su beni immobili, azioni e somme liquide pari a 8,1 miliardi di euro. “Sorprende”, dunque, che anche il governo si sia fatto cogliere nuovamente impreparato alla sicura rappresaglia del gruppo Riva, dopo aver accelerato i tempi per ottenere il commissariamento dell’Ilva Spa proprio a causa del disimpegno del gruppo Riva dagli impegni assunti con l’AIA ottenuta nell’ottobre dello scorso anno. Ma ancora di più “sorprende” la reazione di Confindustria e Federacciai, così come dei politici, dei sindacati metalmeccanici e di tutti coloro i quali avrebbero dovuto leggere con maggiore attenzione le carte delle varie operazioni della magistratura tarantina. Quasi certamente però, tutti i commedianti in questione quelle carte le hanno lette più che bene: hanno semplicemente assunto il tipico atteggiamento italiota di chi crede che alla fine “tutto si aggiusta”. Sperando da un lato che la magistratura tarantina si ritirasse dal campo di battaglia, ma soprattutto che lo Stato riuscisse attraverso decreti e leggi ad hoc, a blindare tutto quello che riguarda il gruppo Riva e il mondo che gli gira intorno.
Peccato però, che il tiro peggiore sia arrivato proprio da chi si credeva indistruttibile. Del resto, lo ripetiamo da sempre: il gruppo Riva aveva fatto i suoi calcoli per tempo. Aveva programmato la sua uscita di scena sin dalle prime avvisaglie di ciò che sarebbe diventata l’inchiesta della procura di Taranto. Non è un caso se le operazioni finanziarie con il trasloco dei capitali all’estero e lo scorporo di varie parti del gruppo, abbia avuto inizio proprio nel luglio dello scorso anno ed abbia avuto un’accelerata nell’autunno seguente. Il gruppo Riva ha semplicemente atteso il corso degli eventi dopo aver messo al riparo i capitali liquidi ottenuti in tutti questi anni. Del resto, una società di quello spessore che decide di non difendersi nel corso di un incidente probatorio (febbraio e marzo 2012), cos’altro vuol dire se non che ha già deciso di abbandonare i ferri vecchi del suo impero e lasciare agli altri il compito di risolvere i problemi da esso creati? Il gruppo Riva ha già detto addio a Taranto, a Genova, ed all’Italia intera. Il siderurgico tarantino è commissariato. Dalla sua produzione dipende tutto il resto. Quando si decide di non difendere più la base di un impero, vuol dire che la storia ha già voltato pagina.
Ma siccome la musica non è ancora finita, dobbiamo continuare tutti a ballare. Nella giornata di ieri infatti, il ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato, ha avuto un colloquio telefonico con il commercialista Mario Tagarelli, custode e amministratore giudiziario dei beni sequestrati a Riva FIRE, Riva Forni Elettrici e Ilva Spa. Nel colloquio, Tagarelli ha riferito di essere ancora in attesa del verbale di immissione in possesso dei beni sequestrati. Il verbale di immissione in possesso dei beni sequestrati dovrebbe essere notificato al custode-amministratore entro la prossima settimana. Questo perché è ancora in corso il lavoro dei militari della Guardia di Finanza, che stanno stilando in dettaglio l’elenco dei beni (azioni, quote sociali, cespiti aziendali, partecipazioni in portafoglio e denaro in contanti) finiti sotto sigilli. Attenzione però. Perché per quanto riguarda le risorse liquide, i conti correnti congelati, una volta ricevuto il verbale di immissione, Tagarelli non potrà disporre in automatico di quelle risorse liquide che nel congelatore.
Per sbloccarle, così come accadde con il materiale sequestrato nel novembre dello scorso anno all’Ilva, ci vorrà un’istanza di dissequestro o un nuovo provvedimento dei magistrati che consenta al commercialista di disporre delle risorse liquide. Cosa alquanto difficile, almeno per il momento, visto che quelle somme servono a raggiungere i famosi 8,1 miliardi di euro. Ciò detto, è assolutamente vero che le aziende della Riva Acciaio avrebbero potuto continuare a produrre e quindi portare avanti tutte le attività attingendo dai crediti bancari, rimasti intaccati dal sequestro. Il problema vero, infatti, è proprio qui. Perché nonostante tutto, il gruppo Riva ha ancora un fedele alleato in tutta questa vicenda: le banche. L’interruzione dei fidi da parte degli istituti di credito ha infatti bloccato tutto. Un assist perfetto per il gruppo Riva per mettere in scena la rappresaglia contro i lavoratori, piangendo miseria di fronte all’Italia intera: sentire Bruno Ferrante (nuovo presidente di Riva Acciaio) sostenere che non vi sono più i soldi nemmeno per fare benzina e consentire ai tir di portare via il prodotto lavorato, non ha prezzo.
E così il gruppo Riva si permette il lusso di continuare a giocare il gioco delle tre carte. Perché se da un lato ha manifestato disponibilità al dialogo ed alla riapertura delle fabbriche del nord dopo la serrata della scorsa settimana, dall’altro continua a spargere benzina (quella finta, ovviamente) sul fuoco. In una nota ufficiale inviata ieri ai fornitori, il Gruppo Riva Acciaio ha infatti dichiarato di non essere più in grado di pagare nessuno. Poi però, poco dopo, la società dirama un altro comunicato in cui informa che “è pronta ad avviare un dialogo con il custode giudiziario per verificare se sussistano le condizioni per una ripresa delle attività produttive nei propri stabilimenti”. Intanto, in attesa di capire come e se muoversi, durante il question time di oggi alla Camera, il ministro del Lavoro risponderà all’interrogazione del gruppo del Partito democratico che chiede misure di carattere urgente e immediato al fine di garantire la continuità occupazionale in tutte le aziende del gruppo Riva. Un’ipotesi, questa sì, da commedia all’italiana.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 18.09.2013)
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