L’Ilva non si ferma. E Taranto si riposa

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TARANTO – Strana città, Taranto. D’estate, specialmente nel mese di agosto, si dimentica di ogni problema e sprofonda in un’apatia nella quale tutto si dimentica o si finge di dimenticare. Soltanto lo scorso 1 agosto avveniva la conversione in legge del decreto “Nuove disposizioni urgenti a tutela dell’ambiente, della salute e del lavoro in imprese di carattere strategico nazionale”, ribattezzato ‘salva Ilva bis’, che avrebbe dovuto risvegliare soprattutto le coscienze dei tanti (a danno dell’impegno concreto dei pochi) che nonostante l’anno appena passato sembrano vivere una tranquilla cittadina di montagna o in una delle zone estive più “in” d’Italia, e non in una della città più inquinate d’Italia. Misteri della tarentinità.

Ciò detto, dopo 21 giorni di meritate ferie, proviamo a fare un piccolo riepilogo di quanto accaduto. Al momento, l’unica cosa certa è che il commissariamento dell’Ilva affidato ad Enrico Bondi, terminerà entro l’agosto del 2016. Tempo entro il quale l’azienda dovrà ottemperare ai lavori di risanamento previsti dal riesame dell’Autorizzazione integrata ambientale, rilasciata al siderurgico il 4 agosto del 2011, imposto dall’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini nell’ottobre scorso, con l’intento limitare l’azione giudiziaria avviata dalla procura di Taranto nel luglio di un anno fa. Ma è proprio qui che sorgono i primi, fondamentali problemi di questa vicenda. Visto che il buon Bondi si è chiuso in un silenzio tombale, tra le caratteristiche principali del suo carattere, seguito a ruota dalla politica e dai sindacati metalmeccanici. Al momento nessuno è in grado di dire cosa avvenga realmente all’interno del più grande siderurgico d’Europa.

L’azienda, commissariata in quanto la sua “attività produttiva ha comportato e comporta oggettivamente pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute a causa della inosservanza reiterata dell’autorizzazione integrata ambientale”, come si legge nel testo di legge, è in clamoroso ritardo sull’attuazione dell’AIA, come evidenziato nei mesi di marzo e maggio dalle due ispezioni effettuate dai tecnici di ISPRA e ARPA Puglia. Ritardi che hanno indotto il governo ad istituire la figura del sub commissario Edo Ronchi e ad affidare a tre esperti nominati dal ministero dell’Ambiente, il compito di redigere entro settembre un “piano di lavoro” che dovrà“prevedere le azioni e i tempi necessari per garantire il rispetto delle prescrizioni di legge e  dell’AIA”. Piano al quale gli enti locali potranno presentare osservazioni, che Bondi acquisirà e girerà al comitato dei tre esperti che redigerà poi il testo definitivo del piano: il tutto entro 120 giorni dalla loro nomina, avvenuta lo scorso 14 luglio. Dunque, soltanto entro novembre ne saranno svelati i contenuti: Bondi avrà poi altri 30 giorni per integrarlo al suo piano industriale. Tutto questo per conseguire un unico vero obiettivo: modificare l’AIA, “limitatamente alla modulazione dei tempi di attuazione delle relative prescrizioni”, come recita il comma 7 della legge. Il ritardo accumulato nei mesi scorsi infatti, ha reso impossibile rispettare il limite di tempo entro il quale effettuare tutti i lavori previsto dall’ex ministro Clini: il 31 dicembre 2015. Ma cosa accadrà nei prossimi 150 giorni, in particolar modo a livello di controllo ambientale e sanitario, non è dato sapere.

Non solo. Perché la legge prevede che i proventi dell’attività produttiva dell’Ilva dei prossimi 36 mesi, siano investiti anche nei lavori previsti dall’AIA. Eppure, Bondi ha stabilito da tempo che la spesa prevista non supererà gli 1,8 miliardi di euro: 325 milioni per l’anno corrente, 855 nel 2014 e 620 nel 2015. Risorse che, come annunciato dallo stesso Bondi alla commissione Industria del Senato a fine luglio, saranno garantite da un finanziamento bancario di un gruppo di banche italiane (Intesa San Paolo e Gruppo Ubi, le più esposte nei confronti di Ilva per i debiti contratti negli anni passati, e Banca Leonardo) e dalla BEI. Basteranno appena 1,8 miliardi di euro per risanare il più grande siderurgico d’Europa? Il ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato si è augurato di sì. Eppure, appena lo scorso aprile, l’ex presidente Ilva Bruno Ferrante parlò di un piano, già redatto, di 2,5 miliardi. L’ex ministro Clini previde una spesa di 3,5 miliardi. Nelle loro valutazioni invece, Procura e custodi giudiziari hanno sempre oscillato tra gli 8 e i 10 miliardi di euro. I conti, dunque, non tornano mai quando si parla di Ilva.

Tutto quanto sopra, si è detto sino ad oggi, è stato fatto in primis per tutelare la salute di operai e cittadini. Una teoria clamorosamente falsa. Smascherabile sin troppo facilmente. Come mai ad esempio, sia nel riesame dell’AIA, che nelle leggi 213/2012 e 89/2013, non hanno trovato posto i dati del registro tumori di Taranto (triennio 2006-07-08) e quelli dello studio Sentieri effettuato dal ministero della Salute e dall’ISS (dal 2003 al 2009), che parlano di un’incidenza per tutti i tumori per la città di Taranto superiore sia a livello regionale che nazionale? Perché è stato stabilito che i risultati della relazione sulla valutazione dell’impatto sanitario dell’attività dell’Ilva redatta da ARPA Puglia non hanno il potere di rivedere le prescrizioni AIA? Forse perché in quella relazione è scritto che con la totale attuazione della stessa il rischio cancerogeno per operai e abitanti dei quartieri limitrofi al siderurgico si ridurrà soltanto del 50%? E soprattutto: perché non si è voluto dar credito alla relazione dell’ISDE (Medici per l’Ambiente) presentata in audizione alla commissione Ambiente della Camera lo scorso 26 giugno, nella quale non solo è detto che il dato sul rischio cancerogeno calcolato da ARPA Puglia è da considerarsi “parziale e fortemente sottostimato”, ma soprattutto che “questo disegno di legge rende comunque di fatto la salute dei tarantini un bene negoziabile”?

Di fronte a tutto questo, si è deciso di andare comunque avanti. Lo Stato ha stabilito ben due volte per legge che l’ambiente di Taranto e la salute di operai e cittadini sono aspetti sacrificabili e secondari al cospetto della produzione e del profitto di un’azienda che non deve chiudere perché di interesse strategico nazionale. Sul cui futuro però, nessuno può garantire alcunché. Al termine del commissariamento infatti, nelle idee del governo l’Ilva tornerà nelle mani del gruppo Riva. O almeno dovrebbe, visto che la Spa in questione è stata staccata dal gruppo madre (la Riva FIRE oggi Riva Forni Elettrici) con una serie di operazioni finanziarie, “perché dovrà camminare con le proprie gambe”.

Bondi potrebbe vendere il ramo d’azienda della produzione a caldo come fece nel 2003 alla guida della Lucchini, oggi commissariata e vicina alla chiusura. Vendere a chi, poi, quando i maggiori competitor mondiali come Russia, India, Cina e Brasile non solo producono per se stessi ma già ora possono supplire agli 8 milioni di tonnellate d’acciaio prodotte dall’Ilva? Tutto questo a fronte del recente studio della Morgan Stanley Bank sul mercato dell’acciaio mondiale riportato su queste colonne tempo addietro, che ha dichiarato come in Europa le importazioni sostituiranno la produzione, anche se il Vecchio Continente dovesse ristrutturare il suo mercato interno. Un motivo in più per accelerare nei campi della riconversione industriale e delle alternative economiche, temi sui quali nessuno ha mai avuto il coraggio di puntare seriamente.

Senza dimenticare che l’inchiesta della Procura di Taranto si è oramai avviata alla sua conclusione: entro l’autunno arriveranno gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari e poi le richieste di rinvio a giudizio. A tremare, sono in tanti: a Palazzo di Città, in Provincia, in Regione ed all’interno dei sindacati, sino ad arrivare a Roma agli uffici del ministero dell’Ambiente. La parola fine alla storiaccia dell’Ilva, è dunque ben lungi dal poter essere scritta. Ma nonostante tutto questo, Taranto sembra attendere il proprio destino con “invidiabile” tranquillità e apatica non curanza di ciò che avverrà nel prossimo futuro.

Gianmario Leone (TarantoOggi)

 

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