Ilva, tutto secondo i piani
TARANTO – La decisione del tribunale del Riesame di Taranto, che sabato ha respinto il ricorso dei legali della Riva FIRE a favore del dissequestro dei beni della holding capogruppo dopo il sequestro preventivo per equivalente disposto dal gip Patrizia Todisco lo scorso 24 maggio pari a 8,1 miliardi di euro, non cambia di una virgola l’attuale situazione dell’Ilva. Sul diniego allo “svincolo” dei beni, dei conti e delle partecipazioni della Riva FIRE, le motivazioni del Riesame si conosceranno soltanto nei prossimi giorni, ma appare scontato che i legali del gruppo ricorreranno in appello.
Come detto, quanto sopra non interferirà con quanto sta accadendo e accadrà prossimamente nella vicenda Ilva. E certamente non perché il commissario dell’Ilva ed ex amministratore delegato, Enrico Bondi, ha deciso pochi giorni prima dell’udienza del Riesame, di ritirare il ricorso per conto dell’Ilva, che aveva firmato in qualità di ad, anche se dimissionario dal Cda dell’Ilva. Inoltre, è bene ricordare ancora una volta che gli 8,1 miliardi, pur essendo la somma (calcolata per difetto) che secondo i periti della Procura servirebbero per risanare gli impianti dell’area a caldo, sono frutto di un sequestro preventivo, disposto per equivalente ed ai fini dell’eventuale confisca soltanto a processo concluso. Dunque non si capisce bene il perché, a cominciare dal governatore Vendola, in tanti considerino quella somma come il tesoretto da spendere nell’immediato per la bonifica dell’Ilva, visto che tra l’altro le indagini dell’inchiesta devono ancora essere concluse.
Non solo. Non è dato nemmeno sapere il perché in tanti continuino ad ignorare che, sino ad oggi, la Guardia di Finanza è riuscita a racimolare poco più di un miliardo, all’interno del quale la somma liquida non supera i 250mila euro. Il resto sono tutti beni immobili (soprattutto intestati all’Ilva Spa). In pratica, la prova provata di ciò che sosteniamo da mesi: ovvero che il gruppo Riva ha per tempo portato tutti i capitali all’estero, nelle casseforti delle holding offshore. Non solo. Perché sono ancora parecchi quelli che continuano ad ignorare come l’Ilva Spa sia oramai da tempo un’azienda “staccata” dalla controllante Riva FIRE. Un’azienda che dovrebbe essere in grado di camminare sulle proprie gambe, come annunciarono lo scorso 10 aprile Enrico Bondi e Bruno Ferrante, attuale presidente dimissionario dell’Ilva.
Il problema è che, come sottolineiamo da tempo, quelle gambe non solo sono di argilla, ma stanno anche sprofondando nelle sabbie mobili di un terreno a lungo avvelenato sin nelle sue viscere. Perché se è vero che l’attività produttiva dell’Ilva non si è mai fermata ed è garantita dalla legge 231 del dicembre scorso e il nuovo decreto varato lo scorso 4 giugno assegna al commissario Bondi la gestione delle “linee di credito per garantire l’attività dell’azienda oggetto di commissariamento, anche in carico a società del medesimo gruppo” e lo “svincolo delle somme da parte del giudice per le quali in sede penale sia stato disposto il sequestro” da finalizzare agli obiettivi del commissariamento ovvero l’attuazione dell’AIA, qualora ciò effettivamente avvenga, la somma sin qui raccolta non basterà nemmeno per avviare una minima parte dei lavori previsti. Non è un caso dunque se, come immediatamente segnalato su queste colonne, il comma 7 dell’art. 1 del decreto varato lo scorso 4 giugno prevede che “il rappresentante dell’impresa può proporre osservazioni al piano di cui al comma 5 (quello che sarà redatto dal sub commissario e dai tre esperti del ministero dell’Ambiente) entro dieci giorni dalla sua pubblicazione; le stesse sono valutate dal comitato. L’approvazione del piano di cui al equivale a modifica dell’AIA”.
In pratica, sia Bondi in qualità di commissario dell’azienda, sia il rappresentante della stessa che a breve sarà nominato dal Cda, potranno dire la loro sul piano che sarà redatto dagli esperti del ministero dell’Ambiente, sino ad arrivare ad una modifica dell’AIA. Perché è chiaro che senza le risorse necessarie, l’AIA redatta lo scorso 26 ottobre dall’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini è niente di più che carta straccia. Non è un caso se l’azienda nei giorni scorsi ha deciso di fermare alcuni impianti, come l’AFO 2 e l’acciaieria 1, la cui fermata non era prevista dall’AIA che indicava per quest’ultimi lavori di manutenzione da effettuare ad impianti regolarmente in funzione. Il sentore, infatti, è che quegli impianti non ripartiranno. Del resto, l’AIA non prevede la fermata dell’AFO 4 e quella di AFO 5, più grande altoforno d’Europa che contribuisce al 45% della produzione dell’Ilva, si dovrà fermare non prima di giugno 2014.
L’AFO 1 è già fermo e l’AFO 3 sarà dismesso. Se teniamo conto che l’Ilva è in ritardo sul rispetto di diverse prescrizioni che non riguardano gli impianti su citati, il quadro appare molto più chiaro di quel che è. Stante così le cose, è chiaro che le tante prescrizioni previste nell’AIA, saranno riviste nella loro tempistica. Lo stesso Edo Ronchi, nominato sabato dal ministro dell’Ambiente Andrea Orlando nel ruolo di sub commissario dell’Ilva, ha già dichiarato che si metterà subito all’opera per studiare il “piano di lavoro” per l’incarico che gli è stato assegnato. Peccato che quel piano di lavoro esiste già ed è l’AIA rilasciata nello scorso ottobre. Inoltre, appare scontato che riesaminare ancora una volta la tempistica degli interventi dell’AIA, sarà l’unico modo per evitare un nuovo stop all’attività dell’area a caldo da parte della magistratura, che da diverse settimane ha ordinato ai custodi giudiziari ed ai Carabinieri del NOE di redigere relazioni settimanali sul rispetto del crono programma previsto dall’AIA.
Qualora non venisse rispettato infatti, anche per quanto stabilito dalla Corte Costituzionale, la Procura potrà nuovamente intervenire ordinando il fermo dell’area a caldo. Né i prestiti delle banche (verso cui l’Ilva era già esposta a fine 2011 per 2,9 miliardi di euro), né quelli della BEI (Banca Europea Investimenti), potranno servire per arrestare una dismissione studiata a tavolino dagli stessi Riva al momento dell’acquisto del siderurgico tarantino. Perché non intervenire anche soltanto sulle batterie dei forni della cokeria, che hanno un ciclo vitale di non più di 40 anni e la cui installazione risale agli anni ’70, è stato ed è ancora oggi il segnale più chiaro di una strategia industriale votata unicamente alla logica del profitto. Arraffare, a danno della salute e dell’ambiente, quanto più possibile sin quando possibile per poi battere in ritirata. E lasciare nelle mani degli amici, lo Stato, i sindacati e il mondo dell’imprenditoria (Confindustria e Federacciai su tutti), una patata bollente ripiena di acciaio liquido inquinante ma vuota di futuro. Per tutti.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 17.06.2013)