Taranto, sequestrato il depuratore “Gennarini” – L’approfondimento
TARANTO – E’ stato sequestrato ieri, ancora una volta, l’impianto di depurazione “Gennarini”. Forse uno dei più grandi scandali politico/ambientali della nostra città. Un impianto abbandonato da anni nel degrado, lasciato nell’abbandono più totale e “libero” nello scaricare liquami in mare.
L’operazione della Guardia Costiera
Il sequestro di ieri è l’esito di una prolungata attività di monitoraggio condotta dagli uomini del Nucleo difesa mare della Capitaneria di porto di Taranto – Guardia Costiera, presso il depuratore già noto per episodi più o meno gravi di inquinamento marino causati dal mal funzionamenti dello stesso. La prolungata attività di monitoraggio dell’impianto da parte degli uomini della Guardia costiera ha consentito di accertare “lo stato di totale degrado ed abbandono in cui versavano tutte le strutture, con assenza della pur minima attività di manutenzione e conseguente grave malfunzionamento dello stesso impianto”, non più in grado di assolvere alla funzione alla quale è preposto.
La scena che si è presentata ai militari accertatori quando nella mattinata di ieri hanno eseguito l’ulteriore sopralluogo all’impianto, è stata quella di “un consistente sversamento a cascata di liquami non depurati, in atto direttamente sulla battigia, con odore nauseabondo che pervadeva l’intera zona”. Contattata l’Autorità Giudiziaria e riferito in ordine agli sviluppi delle indagini in corso già di diversi giorni, “si conveniva di operare l’immediato sequestro delle opere al fine di far cessare lo stato di abbondono riscontrato”. Il sequestro penale riguarda l’intero impianto di sollevamento del depuratore per una superficie di 5600 mq con annesso scarico di troppo pieno realizzato su pubblico demanio marittimo su una superficie di 248 mq, nonché l’intera condotta interrata estesa tra l’impianto di depurazione e lo scarico in mare per una lunghezza di 4 km.
Le ipotesi di reato accertate, sono tuttora in corso gli accertamenti volti ad individuarne i responsabili, sono gravissime in quanto si va “dall’interruzione di pubblico servizio al danneggiamento aggravato di bene pubblico con scarico a mare di cose pericolose”, tutte ipotesi contemplate dal vigente Codice penale, per giungere “alla contestazione della limitazione dell’uso pubblico del demanio marittimo”, ipotesi penalmente rilevante contemplata dal Codice della navigazione. Le opere sequestrate sono state affidate in custodia al Comune di Taranto. Le indagini proseguiranno anche nei prossimi giorni al fine di accertare eventuali ulteriori ipotesi penalmente rilevanti, con l’obiettivo di fare definitivamente chiarezza sull’intera vicenda.
Un progetto nato male
Per l’agglomerato urbano di Taranto ci sono due depuratori, il Gennarini, sito nell’omonima contrada fra viale Jonio ed il quartiere Taranto Due, ed il Bellavista. Già il 16 settembre del ’98, i carabinieri del NOE disposero il sequestro probatorio, con facoltà d’uso, di 16 depuratori in funzione nel capoluogo e in alcuni Comuni dell’hinterland. Già allora si parlava di inadempimenti contrattuali, strutture inadeguate e sversamento di liquami non conformi ai limiti con sentiti. Il 25 ottobre del 2004, il dirigente del servizio di Igiene pubblica dell’ASL/TA, Cosimo Scarnera, lamentava attraverso una nota inviata al Comune di Taranto e al direttore compartimentale dell’Acquedotto Pugliese, la mancata installazione/attivazione del doppio sistema di monitoraggio. Il depuratore Gennarini fu sottoposto a sequestro probatorio dai militari della Capitaneria di Porto anche il 20 gennaio del 2005. Il decreto esecutivo, riguardava oggi come ieri tutte le strutture e l’inchiesta fu avviata in seguito a una denuncia presentata dall’ex consigliere comunale Nello De Gregorio.
Poi, nel 2008, l’ARPA Puglia segnalava in una relazione tecnica come “lo stato delle acque genera preoccupazione”, segnalando tra le varie criticità degli scarichi civili investono in particolar modo l’area di San Vito-Lido Bruno, “dove insiste lo scarico della condotta sottomarina del depuratore Gennarini” (al termine di alcune analisi svolte in tutto il 2007). Nel progetto iniziale la condotta fu realizzata per scaricare i reflui depurati a circa tre km dalla costa, ma già una denuncia del 2002 (dell’ambientalista Fabio Matacchiera), seguita da un’altra nel 2006, segnalava le gravissime inadempienze nella sua realizzazione, evidenziando diverse falle e cedimenti strutturali che da anni arrecano gravi danni ambientali all’intera area costiera.
Gli sversamenti in mare, evidenti a 460 metri dalla costa, per anni sono stati oggetto di occultata mento e ridimensionamento dalle varie amministrazioni locali succedutesi nel tempo, in primis da esponenti dell’allora giunta Di Bello, poi finiti a processo (lo scorso 8 maggio il pubblico ministero ha chiesto di condannare a sette mesi di reclusione tutti gli imputati. Si tratta di funzionari dell’ente autonomo Acquedotto Pugliese, di dirigenti del Comune di Taranto e di rappresentanti dell’associazione temporanea d’impresa affidataria del servizio di conduzione, controllo e custodia dell’impianto: prossima udienza il 17 giugno). Le video denunce degli anni passati segnalavano infatti come i reflui presenti in mare non erano affatto depurati. Anche nel marzo scorso la Capitaneria di Porto di Taranto denunciò una notevole fuoriuscita di fanghi non depurati nelle acque di San Vito a causa di una grave anomalia (una abbondante fuoriuscita di fanghi dalle vasche di depurazione e il conseguente sversamento in mare, attraverso la condotta, di acque non depurate). Le falle della condotta non sono state invece mai riparate e da anni sono oggetto di rimpalli di responsabilità a livello politico.
Quei 14 milioni sospesi nell’aria
La vicenda del depuratore Gennarini-Bellavista è da almeno quattro anni al centro di un lungo braccio di ferro tra la Regione Puglia e l’Ilva (negli anni abbiamo seguito l’intero iter della vicenda su queste colonne). L’ex assessore alle Opere Pubbliche, Fabiano Amati, da anni propone l’avvio in esercizio dell’impianto di ultraffinamento Gennarini-Bellavista di Taranto, il cui utilizzo permetterebbe di sostituire con acque ultra affinate quelle prelevate dallo schema idraulico del Sinni e del Tara, attualmente utilizzate da Ilva (il cui consumo ammonta a 250 litri al secondo) e di invasare, con la risorsa risparmiata, la Diga del Pappadai (in fase di collaudo) consentendo così di mettere in funzione un’opera utile ad integrare la richiesta di acqua sia potabile che utilizzata per scopi irrigui.
Intanto il tempo passa, ed è sempre più concreto il rischio di perdere i 14 milioni di euro stanziati dalla Protezione civile nazionale. L’ex assessore regionale Amati ha cercato invano per due anni un accordo con l’Ilva (biennio 2009/’10): il siderurgico avrebbe dovuto usare l’uscita del depuratore Gennarini-Bellavista, la cui costruzione sarebbe stata affidata all’Acquedotto pugliese. Al’Ilva sarebbe stato assegnato il compito di provvedere ai costi di gestione dell’impianto adoperato per il “riciclo” dell’acqua. Dopo una serie di riunioni finite con un buco nell’acqua, nell’ottobre del 2011 si svolse a Potenza la riunione del “Comitato di coordinamento per l’accordo Puglia-Basilicata”. In quell’occasione fu accolta la proposta della Regione Puglia che prevedeva che dal 2012 il costo dell’acqua per uso agricolo sarebbe stato ridotto del 25%, mentre quello per uso industriale sarebbe aumentato nella misura del 250% nel 2012, del 400% nel 2013 e del 500% nel 2014.
Le variazioni dovevano riguardare le imprese agricole ed industriali che utilizzano la risorsa prelevata dalla Regione Basilicata, calcolate sul costo sostenuto nel 2011. La revisione del modello tariffario, stabilito soltanto in via provvisoria dal Comitato nel lontano 2004, rientrava nel percorso indicato da una direttiva europea che prevedeva come a partire dal 2010 gli Stati membri avrebbero dovuto provvedere “affinché le politiche dei prezzi dell’acqua incentivino i consumatori a usare in modo efficiente le risorse idriche e perché i vari settori di impiego dell’acqua contribuiscano al recupero dei costi dei servizi idrici, compresi i costi per l’ambiente e le risorse”.
E’ bene inoltre ricordare che la prescrizione di utilizzo delle acque ultra affinate del depuratore Gennarini-Bellavista, era contenuta anche nel decreto di autorizzazione integrata ambientale (AIA) emesso dal ministero dell’Ambiente nel 2011, proprio in recepimento delle richieste della Regione Puglia contenute nella delibera della Giunta regionale del 4 luglio 2011. Prescrizione contro la quale Ilva presentò ricorso al TAR di Lecce: ma nel 2012 i giudici amministrativi di Lecce rigettarono il ricorso dell’azienda, ritenendo legittima la prescrizione richiesta dalla Regione Puglia. Tutto questo però è finito nel congelatore amministrativo proprio con il riesame dell’AIA del 2011, deciso dal ministro dell’Ambiente, Corrado Clini. Non è un caso, del resto, se la parte relativa all’uso delle acque per il siderurgico è ancora nella fase di studio da parte della commissione IPPC. Nel frattempo l’acqua continua a scorrere e con essa i liquami che inquinano il nostro mare. Con il rischio concreto di perdere l’ennesima occasione, in termini di investimento, che possa ricongiungerci al concetto di giustizia sociale e di rispetto dell’ambiente.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 07.06.2013)