L’Ilva non si deve fermare – Con la nomina di Bondi vince sempre il gruppo Riva
TARANTO – Una cosa è certa: il nuovo decreto legge varato dal Consiglio dei Ministri e firmato nella tarda serata di ieri dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (sarà pubblicato stamane sulla Gazzetta Ufficiale con il n. 61), non piace proprio a nessuno. Lo dimostra il fatto che la nota ufficiale del Consiglio dei Ministri è apparsa oltre due ore dopo la conclusione dello stesso. Ed è stata già annunciata battaglia dai vari gruppi parlamentari quando il testo arriverà alla Camera e al Senato.
Sia come sia, la realtà dei fatti non cambia. Perché la nomina a commissario straordinario dell’Ilva di Enrico Bondi, è l’ennesima vittoria del gruppo Riva. Che aveva anticipato ancora una volta tutti, nominando il longevo manager prima consulente del gruppo e poi amministratore delegato dell’Ilva stessa. Non solo. Come ampiamente denunciato invano per mesi, il gruppo Riva a gennaio scorso separò l’Ilva Spa dal gruppo principale, la Riva FIRE oggi Riva Forni Elettrici, al termine di un’operazione finanziaria imponente partita dal marzo 2012 e conclusasi nel mese di dicembre, grazie alla quale gli enormi capitali dell’impero del gruppo sono stati dirottati nelle varie holding estere offshore (Caraibi, Olanda e Lussemburgo).
Prova ne sia il fatto che la Guardia di Finanza, dopo aver messo a soqquadro l’Italia intera (tra banche, aziende, proprietà, cassette di sicurezza, etc.), è riuscita a racimolare meno di un miliardo di euro, rispetto agli 8 individuati dai custodi giudiziari come la somma da investire per il risanamento degli impianti della sola area a caldo dell’Ilva. Non solo. Perché attraverso un lento ma inesorabile disimpegno, ignorato colpevolmente per mesi da istituzioni e sindacati, il gruppo Riva aveva confermato quanto sostenuto su queste colonne già la scorsa estate: ovvero che mai e poi mai avrebbe investito un solo euro di quanto guadagnato a Taranto dal ’95 ad oggi, per la messa a norma dell’area a caldo. I Riva hanno operato per anni nella più totale impunità, perché lo Stato ha sempre saputo che il “do ut des” (“io do affinché tu dia”) di fondo era molto semplice: io ti reggo l’intera industria siderurgica italiana, ti permetto di mantenere in piedi il comparto meccanico e manifatturiero italiano mantenendo migliaia di posti di lavoro e facendo girare l’economia, ma tu non osare venire a guardare come e in che modo produco e se ciò che faccio è a norme di legge o mette a repentaglio l’ambiente e la salute di operai e cittadini di Taranto.
Il gioco è tutto qui: e sinceramente fanno ridere tutti quei politici e quei sindacalisti (stendiamo un velo sul mondo dell’informazione e sugli intellettuali italiani che oramai sono una specie del tutto estinta) che soltanto oggi puntano il dito contro la famiglia Riva, accusandola di non si sa bene cosa, visto che loro stessi sono stati complici per anni e anni di quanto verificatosi sino ad oggi. Al Comune, alla Provincia, alla Regione sino al ministero dell’Ambiente, hanno sempre saputo e sanno perfettamente anche oggi che la storia è quella su citata ed è molto più semplice, pur nella sua brutalità, di quanto si voglia far credere. Perché quando oggi si dice che se si ferma la produzione dell’Ilva di Taranto, il sistema economico italiano rischia il collasso, non si afferma il falso. E con un sistema economico quasi al collasso, perdere tutto questo vorrebbe dire affossare del tutto l’economia italiana. Il problema è che quel sistema economico che si vuol difendere a tutti i costi, ha arricchito sempre i soliti noti.
A discapito di molti, troppi. Ed è quello che accadrà ancora una volta. Perché il gruppo Riva, seppur sospeso, resta a tutti gli effetti proprietario dell’Ilva (a meno che non vendano in corso d’opera). E rientreranno a gestire ufficialmente il siderurgico tarantino a risanamento avvenuto. Che avverrà sia attraverso gli introiti derivanti dalla vendita dell’acciaio prodotto, sia con gli aiuti che arriveranno dalle banche e dell’Unione Europea. Perché Bondi a questo servirà: a trovare quanti più soldi possibili all’esterno dell’Ilva, lasciando magari in dote un bel tesoretto (alla guida della Parmalat, che aveva un buco di 13 miliardi di euro, riuscì a farsi restituire dalla banche oltre 2 miliardi). Tutto ciò detto, oggi si vuol provare a realizzare un’impresa che va ben oltre l’umano: risanare un’azienda enorme, in soli 36 mesi. Quando altrove, industrie simili ma dalle dimensioni decisamente minori, sono state risanate in oltre 20 anni.
Insomma, si vuol mettere la solita pezza a colori, si vuol nascondere ancora una volta la polvere sotto il tappeto. Perché è chiaro a tutti che risanare e produrre nello stesso tempo, è del tutto impraticabile. Oltre che inutile. Perché il veleno, in tutti questi anni, è sceso nelle viscere della terra, è andato troppo in profondità. Che senso ha risanare un altoforno, un’acciaieria o coprire i parchi minerali (ammesso che mai lo si farà per davvero) riducendone le emissioni, quando la falda profonda che arriva al mare e chissà sin dove, resta avvelenata oltre l’accettabile umanità? Che senso ha un’AIA che non potrà mai essere rispettata (a proposito, ma il Garante Vitaliano Esposito che fine farà dopo l’ultimo decreto) e sulla quale la magistratura avrà i fari puntati ogni secondo, pronta a bloccare nuovamente l’attività dell’azienda ove scorgesse nuova infrazioni?
Che senso ha portare avanti delle bonifiche quando si permetterà all’Ilva di inquinare ancora (il commissario per le bonifiche Alfio Pini, se non ci sarà una deroga per il Patto di Stabilità della Regione in cui sono congelate le risorse per l’attuazione delle stesse, sarà il prossimo a saltare). Che senso ha investire miliardi di euro, quando anche la Valutazione del Danno Sanitario redatta dall’ARPA Puglia pochi giorni fa, ha accertato che ad AIA applicata entro il 2016, il rischio cancerogeno per la popolazione dei quartieri più vicini all’Ilva sarà soltanto dimezzato? Ma soprattutto: che senso ha mantenere in vita una siderurgia italiana che presto o tardi sarà divorata dai mercati esteri e non essendo più competitiva sarà costretta ad auto ridimensionarsi sino all’estinzione (non più tardi di dieci anni)?
L’Ilva è un labirinto d’acciaio senza uscite, con mille trappole mortali e centinaia di mine nel sottosuolo. E’ un problema irrisolvibile, un indovinello senza soluzione. Un qualcosa destinato ad implodere. Si vuole perseverare soltanto perché non si ha il coraggio di ammettere che un’epoca è finita. Una guerra dalla quale usciremo tutti sconfitti. “Predatori del mondo intero, adesso che mancano terre alla vostra sete di totale devastazione andate a frugare anche il mare. Avidi se il nemico è ricco e arroganti se è povero. Solo voi bramate possedere con pari smania ricchezza e miseria. Rubano, massacrano, rapinano, e con falso nome lo chiamano impero. Rubano, massacrano, rapinano, e con falso nome lo chiamano nuovo ordine. Laddove fanno il deserto, lo chiamano pace” (“Agricola”, Publio Cornelio Tacito, 55-120, oratore, politico, scrittore e storico romano).
Gianmario Leone (TarantoOggi, 05.06.2013)