L’Ilva salvata con soldi pubblici
TARANTO – Quasi certamente il giorno della verità per la soluzione della vicenda Ilva sarà domani, in occasione del Consiglio dei Ministri convocato dal premier Enrico Letta. Intanto, anche ieri sono proseguiti senza soluzione di continuità le riunioni a Palazzo Chigi e nei vari ministeri interessati, per trovare il bandolo di una matassa che si scioglierà nel peggiore dei modi. Questo perché, ancora una volta, l’obiettivo dichiarato del governo e dei sindacati è essenzialmente uno soltanto: salvare i posti di lavoro e la continuità produttiva del siderurgico tarantino, evitando il blocco degli impianti.
Perché il postulato su cui si fonda anche l’assunto su cui è stata scritta l’AIA dello scorso ottobre, è che si può risanare continuando a produrre. Fermare gli impianti, risanarli e poi riprendere a produrre, che altro non è che il nucleo dell’ordinanza di sequestro preventivo dello scorso luglio firmata dal gip Todisco, è totalmente da escludere. Perché questo vorrebbe dire costringere l’industria meccanica italiana e il comparto manifatturiero, a rifornirsi all’estero: apriti cielo. Siamo tra le prime dieci economie al mondo, non scherziamo!
E così, pur di far quadrare il cerchio, lo Stato italiano è pronto a qualsiasi cosa. Anche a sobbarcarsi i lavori di risanamento del più grande siderurgico d’Europa, dopo aver permesso al gruppo Riva di mettere su un impero lontano dagli sguardi indiscreti di chi avrebbe dovuto e potuto controllare che l’ambiente e la salute di cittadini ed operai, venissero intaccati il meno possibile dalla produzione dell’acciaio che regge gran parte del sistema economico italiano. Per far sì che ciò avvenga però, è imprescindibile reperire tutti i fondi necessari per avviare i lavori di risanamento sui vari impianti dell’area a caldo dell’Ilva previsti dall’AIA dello scorso 26 ottobre. Perché prima di avviare ogni azione, bisogna avere un quadro chiaro della reale situazione in cui versa la grande fabbrica. Ed infatti a Roma attendono da Taranto la seconda relazione trimestrale dei tecnici ISPRA, in questi giorni all’Ilva per effettuare una seconda ispezione, che dovrà accertare lo stato di attuazione delle prescrizioni: il testo arriverà direttamente sul tavolo del governo domani in occasione del Consiglio dei Ministri.
Soltanto una volta avuto il quadro completo sullo stato reale in cui versano gli impianti dell’area a caldo dell’Ilva, si avrà contezza esatta delle risorse da investire. Che certamente non saranno elargite dal gruppo Riva, improvvisamente trasformatosi per istituzioni e sindacati in un interlocutore “non credibile”. A ribadire il concetto ieri, è stato lo stesso ministro dello Sviluppo Economico Flavio Zanonato, che a margine del Consiglio europeo sulla Competitività ha dichiarato che bisogna “fare in modo che chi risana non sia chi ha inquinato: uno dei problemi è la credibilità del risanatore”.
Anche ieri infatti, abbiamo dovuto assistere ad una carrellata di dichiarazioni da voltastomaco da parte di politici e sindacalisti, che dopo aver sposato per anni le politiche del gruppo Riva, si affannano in tutta fretta, come nel peggiore stile di questo paese, a rinnegare di aver mai avuto a che fare con “l’ingegnere dell’acciaio”. Una recita penosa, davvero mal riuscita: visto che per tutti questi mesi, dopo l’approvazione dell’AIA e della legge ‘salva-Ilva’, tutti costoro hanno fatto finta di credere che il gruppo Riva avrebbe messo mani al portafoglio per fare quegli investimenti che avrebbe dovuto fare negli ultimi vent’anni. Dimentichi che negli ultimi anni, insieme ai sindacati, hanno sostenuto la peregrina tesi secondo cui il gruppo Riva avesse investito la bellezza di un miliardo di euro dal ’95 ad oggi per “ambientalizzare” l’Ilva.
Ciò detto, in queste ore la domanda delle domande è la seguente: come fare per far sì che lo Stato risani un’azienda ancora oggi privata? Dal punto di vista legale, ambienti governativi ipotizzano il ricorso alla legge Marzano varata nel febbraio 2004 dal secondo governo Berlusconi, che contiene misure per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza. Condizione in cui però attualmente l’Ilva non è: ecco perché si sta pensando ad allargare l’applicazione della legge, attraverso un nuovo decreto, alle aziende che versano in “crisi ambientale”.
Le legge Marzano prevede l’accesso ad una procedura di amministrazione straordinaria con un commissario che ha 180 giorni di tempo, più una possibile proroga di 90 giorni, per il piano di ristrutturazione. Commissario che potrebbe essere lo stesso Enrico Bondi, che il governo potrebbe nominare all’indomani del Cda dell’Ilva del prossimo 5 giugno, nel caso in cui le dimissioni presentate dall’ad sabato scorso venissero accettate. Questo perché anche il governo si è accorto che la legge 231/2012, la famosa ‘salva-Ilva’, ha tempi di applicazione troppo lunghi: prima di arrivare infatti all’amministrazione straordinaria, è necessario accertare i ritardi nell’applicazione dell’AIA, poi irrogare la sanzione prevista (fino ad un decimo del fatturato). Solo dopo si può giungere alla nomina dell’amministratore straordinario: in questo modo andrebbero via mesi. E poi si lamentano se la si è ribattezzata legge ‘salva-Ilva’ o ad aziendam.
Dal punto di vista economico invece, la strada appare segnata: si chiederanno prestiti ad un gruppo di banche interessate (Intesa San Paolo e Gruppo Ubi che sono le più esposte nei confronti di Ilva per i debiti contratti negli anni, e la Banca Leonardo), e quasi sicuramente si troverà il modo per tirare in mezzo la Cassa Depositi e Prestiti. Società per azioni finanziaria italiana, partecipata per il 70% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, e per il 30% da diverse fondazioni bancarie, è dotata di due rami di azienda, di cui uno proprio relativo al “finanziamento di opere, di impianti, di reti e di dotazioni destinati alla fornitura di servizi pubblici e alle bonifiche”.
Tanto per rendere l’idea della disponibilità economica di questo ente, basti pensare che lo scorso 20 marzo è stato approvato l’esercizio di bilancio 2012 con un utile in crescita del 77% a 2.853 milioni di euro. In ultimo si attingerà a pieni mani anche dagli aiuti economici previsti dal piano Ue sulla siderurgia che sarà approvato il prossimo 11 giugno, in cui sono previsti anche i finanziamenti della BEI (Banca Europea degli Investimenti) che già nel 2010 assegnò un prestito al gruppo Riva di ben 400 milioni di euro. Soldi pubblici per risanare un’azienda privata: alla faccia del “chi inquina paga” stabilito proprio dall’Unione Europea. Tutto quanto sopra, hanno assicurato politici e sindacalisti, servirà anche e soprattutto per tutelare l’ambiente e la salute dei cittadini di Taranto. Voi, ovviamente, credeteci.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 30.05.2013)