Ilva, l’Aia ci salverà. Al 50%, forse

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TARANTO – Da mesi sentiamo ripeterci che “se l’Ilva rispetta le indicazioni dell’AIA, lo stabilimento sarà compatibile con la salute”, tesi sostenuta anche ieri dal direttore dell’ARPA Puglia, Giorgio Assennato, durante l’audizione in V Commissione presieduta da Donato Pentassuglia, in cui è stata illustrato il rapporto elaborato dall’ente regionale per la protezione ambientale nell’ambito della valutazione del danno sanitario prevista dalla legge regionale 21/2012, approvata la scorsa estate in pieno caos Ilva.

Lo studio presentato da Assennato, di ben 99 pagine, contiene un qualcosa di aberrante: “I miglioramenti delle prestazioni ambientali, che erano conseguiti con la completa attuazione della nuova AIA (prevista per il 2016), comportano un dimezzamento del rischio cancerogeno nella popolazione residente intorno all’area industriale”. Dimezzamento del rischio cancerogeno? E questa sarebbe la grande valenza che l’AIA avrebbe sulla salute dei tarantini? In pratica metà degli abitanti dei Tamburi, del Borgo e di Paolo VI sono comunque destinati ad ammalarsi e morire per colpa della produzione del siderurgico più grande d’Europa, che dopo essere stato abbandonato da Riva, lo Stato ora vuole risanare con soldi pubblici.

Ma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il premier Enrico Letta, i ministri dell’Ambiente e della Salute, i parlamentari tarantini, i sindacati locali, la Regione, la Provincia (quel che ne rimane) e il Comune sono a conoscenza di questo rapporto? Hanno davvero intenzione di sacrificare metà della popolazione tarantina residente nelle vicinanze dell’Ilva per salvare la produzione dell’acciaio e il settore siderurgico italiano? E non ci si venga a dire che siamo i soliti catastrofisti. Perché anche l’ARPA sa molto bene che un agente cancerogeno “è un fattore chimico, fisico o biologico (molecola o miscela chimica, radiazione, agente virale, batterico, fungino, animale, condizione di esposizione) in grado di causare tumori o favorirne l’insorgenza e la propagazione”.

Fosse per noi, il commento allo studio potrebbe chiudersi qui. Ma siccome rispettiamo sempre e comunque il lavoro degli altri, nel rapporto stilato dall’ARPA si evidenzia anche che “in ogni caso residui un rischio sanitario in eccesso rispetto a quello previsto ad esempio dall’US-Epa, con una situazione che potrebbe dar luogo ad un’ulteriore fase di gestione del rischio, si potrebbe avere ad esempio correggendo la massima capacità produttiva dell’impianto, riducendo così le emissioni massiche annue”. Secondo il rapporto stilato dall’ARPA infatti, i rischi cancerogeni stimati non sono indicatori di esito sanitario, né sono fondati su dati epidemiologici, ma sono un mero strumento attraverso il quale si può realizzare “una policy pienamente preventiva”. Cosa significa questo?

L’ARPA lo spiega così: “Se si è in grado di prevedere che i cittadini esposti alle emissioni industriali a partire da oggi per i prossimo 70 anni alle concentrazioni prodotte oggi dall’impianto, hanno un rischio cancerogeno superiore a quello “accettabile”, si interviene ora per evitare che si possa realizzare lo scenario previsto, attraverso una riduzione delle emissioni che sia efficace nel ridurre il rischio al di sotto di una determinata soglia”. In pratica si tratta dello stesso ragionamento su cui è stata basa la scelta attuata dalla Cabina di Regia nel voler iniziare le bonifiche dal quartiere Tamburi. A nostra precisa domanda di chiarimenti in merito a ciò durante la conferenza stampa dello scorso 24 aprile, il commissario Alfio Bini tirò fuori uno studio dell’ARPA Puglia ricevuto proprio quel giorno, in cui si stabilisce che bonificando oggi, l’inquinamento attuale, nel caso l’Ilva dovesse continuare ad inquinare come ha fatto sino ad oggi, si riproporrebbe in un arco di tempo che va dai 50 ai 150 anni. Una decisione, anche questa, che per l’ARPA ha il senso di “precauzione e prudenza scientifica”.

Secondo infatti una procedura complessa pubblicata in un documento denominato “red book”, si evince che più dell’80% del rischio cancerogeno è attribuibile al benzo(a)pirene, il cancerogeno appartenente alla famiglia degli IPA contenuto nelle emissioni fuggitive delle cokerie. E qui è giusto e doveroso spezzare più di una lancia in favore dell’ARPA, che in una relazione di tre anni fa, risalente esattamente al 4 giugno 2010, stabilì come l’eccesso di rischio del quartiere Tamburi proprio a causa dell’esposizione al benzo(a)pirene, con conseguente segnalazione al ministero dell’Ambiente, era dovuto al 99% dalle emissioni provenienti dall’Ilva, di cui il 98% dalle cokerie. E così Assennato ha buon gioco nel concludere il suo intervento sostenendo che “se fossero stati realizzati gli studi epidemiologici proposti al Ministero da ARPA e ASL di Taranto in sede AIA, forse ci sarebbe stata una gestione pre-giudiziaria del problema ambiente-salute e non sarebbero scoppiati i conflitti sociali e istituzionali”. Forse, appunto. Domanda: ma che senso ha perseverare sulla salute dei tarantini e su un ambiente oramai compromesso?

G. Leone (TarantoOggi, 30.05.2013)

 

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