Ilva, exit strategy all’italiana
TARANTO – “Il potere logora chi non ce l’ha”, diceva qualcuno che conosceva il mestiere della politica e i segreti di questo paese come pochi. E così, è bastato che durante il Cda di sabato dell’Ilva Spa il neo ad Enrico Bondi, il presidente Bruno Ferrante ed il consigliere Giuseppe De Iure presentassero le lodo dimissioni, per causare l’ennesimo “terremoto” nel mondo della politica, dei sindacati e dell’imprenditoria italiana. Nessuno, però, si è fermato un solo istante a riflettere ed analizzare i fatti per ciò che sono nella loro natura nuda e cruda. Primo: i tre dimissionari, per ora, restano ai loro posti. Almeno sino al prossimo Cda convocato il prossimo 5 giugno (guarda caso lo stesso giorno in cui l’Ue presenterà il piano per il settore siderurgico europeo).
In quell’occasione, l’assemblea dei soci deciderà se chiedere il ritiro delle dimissioni, accettarle in toto o in parte, oppure, eventualità da non escludersi, rimettere tutto nelle mani dell’amministratore del sequestro preventivo dei beni della Riva FIRE nominato venerdì dal gip di Taranto, Mario Tagarelli. Secondo: il Cda ha annunciato di aver dato mandato ai legali dell’Ilva di ricorrere nelle sedi competenti contro l’ultimo provvedimento della procura ionica (cosa che avverrà quest’oggi con l’ennesima istanza presentata al Riesame). Terzo: nessuno si è soffermato sulle motivazioni addotte dal Cda. Nella nota si legge infatti che “l’ordinanza dell’Autorità giudiziaria colpisce i beni di pertinenza di RIVA FIRE e in via residuale gli immobili di ILVA che non siano strettamente indispensabili all’esercizio dell’attività produttiva nello stabilimento di Taranto. Per tali motivi il provvedimento ha effetti oggettivamente negativi per ILVA, i cui beni sono tutti strettamente indispensabili all’attività industriale e per questo tutelati dalla legge 231/2012, dichiarata legittima dalla Corte Costituzionale”.
In pratica, pur riguardando il sequestro soltanto la Riva FIRE Spa, il Cda Ilva ritiene “oggettivamente” danneggiato nelle sue funzioni l’attività del siderurgico che risponde all’Ilva Spa, separata lo scorso gennaio dal ramo principale del gruppo (la Riva Forni Elettrici), garantita e protetta dalla legge 231/2012 entrata in vigore a dicembre e giudicata costituzionale dalla Consulta lo scorso 9 aprile. Perché allora se l’Ilva può continuare a produrre, commercializzare il materiale, incassare la liquidità necessaria per acquistare le materie prime dall’estero e pagare regolarmente gli stipendi degli operai come avvenuto sino ad oggi, si decide di tornare a mettere in discussione tutta la filiera dell’acciaio? Ora lo chiariremo ancora una volta. Intanto, come dicevamo, nessuno si è fermato a riflettere. Anche perché, in concomitanza con la notizia delle dimissioni, dal Cda è ripartito il ritornello infernale che fa impazzire di paura la politica e i sindacati: se chiude l’Ilva, vanno a casa 24mila dipendenti diretti e quasi altrettanto dell’indotto. Con il concreto timore degli stipendi non pagati (prossima scadenza il 12 giugno) che ritorna dopo le minacce dello scorso gennaio (non a caso la Prefettura ha chiesto ai sindacati di tenere buoni gli animi degli operai nelle prossime ore).
Ma è davvero il futuro lavorativo di queste persone che interessa la politica e il sindacato? Ne dubitiamo alquanto. Perché, ad esempio, quando si è trattato di far sottoscrivere ad oltre 11mila operai contratti di solidarietà per un anno lo scorso marzo, nessuno ha mosso un dito. L’unica cosa che veramente conta è non fermare la produzione di acciaio dell’Ilva: lo hanno dichiarato tutti in queste ore. Altrimenti si può dire addio alla siderurgia italiana, oltre che alla gran parte dell’industria meccanica e manifatturiera italiana.
Non a caso, il ministro dello Sviluppo Economico ha subito convocato un incontro per oggi a Roma (domani invece incontrerà il premier Enrico Letta e forse i sindacati). Invitando il governatore della Regione Puglia Nichi Vendola, e, non a caso, Enrico Bondi. Che seppur dimissionario è e resta l’ad dell’Ilva: ma soprattutto sarà colui il quale dovrà portare avanti il “risanamento” del siderurgico tarantino nel prossimo futuro. Perché nessuno vuol sentir parlare e prendere in considerazione, anche soltanto lontanamente, l’idea di una chiusura definitiva, pur avendo preso atto del fatto che il gruppo Riva ha da tempo rinunciato alla gestione dell’azienda (l’atto di sabato del Cda è l’ultimo colpo da biliardo di un gruppo che continua a far paura anche se rifugiato all’estero, ai domiciliari o nelle patrie galere).
Ma per il ministro Zanonato non ci sono nemmeno le condizioni per un commissariamento, inutilmente agognato e sognato da molti. Dunque, chi dovrebbe risanare l’Ilva? E con quali soldi, soprattutto? Perché il problema, ancora una volta, risiede nell’applicazione dell’AIA (visto che le casse dell’Ilva Spa sono “stranamente” al verde). La “nuova” Ilva Spa, nata lo scorso gennaio, non ha le risorse economiche per affrontare i lavori di risanamento imposti all’azienda e da effettuare entro il 31 dicembre 2015. Non a caso non è mai stato presentato il piano finanziario a garanzia della copertura economica dei lavori previsti, così come non è stato redatto alcun piano industriale che potesse chiarire le intenzioni del gruppo Riva per il futuro: semplicemente perché da un anno era iniziato il lento abbandono di una nave destinata ad affondare. Ed ecco che, stante così le cose, il vero piano dei Riva inizia a palesarsi per ciò che in realtà è sempre stato. Affidare la patata bollente dell’Ilva nelle mani dello Stato. Perché è chiaro che qualcuno l’Ilva la dovrà gestire.
L’idea, che in realtà aveva preso corpo già nella mente di Bondi, è pressappoco questa: gestire la fase di risanamento coinvolgendo le banche (le più esposte nei debiti Ilva sono Intesa San Paolo e gruppo Ubi, ma Bondi ha contattato anche la Banca Leonardo) e la Cassa Depositi e Prestiti (ricordate quando ne parlammo lo scorso 21 novembre?) che immetterebbero il capitale necessario per i lavori dell’AIA, risparmiando sui costi di gestione grazie all’aiuto che arriverà direttamente dall’Ue con il piano sulla siderurgia (non a caso giovedì il ministro Zanonato ha incontrato il vicecommissario Ue Tajani). Chiedendo magari una proroga nella scadenza dei lavori previsti entro il 2015. Tempo utile per mettere in piedi un nuovo gruppo imprenditoriale che dovrebbe veder coinvolti i maggiori imprenditori del campo della siderurgia.
Si parla anche di un coinvolgimento di partner stranieri. I soldi che saranno utilizzati, come avete potuto intuire, saranno quelli dei cittadini italiani e, quindi, dei tarantini. Quelli del gruppo Riva? La Guardia di Finanza sta setacciando tutta Italia per rendere operativo il sequestro per equivalente ordinato dal gip Todisco venerdì: al momento fonti investigative parlano di nemmeno 1 miliardo trovato sul suolo italico. Come dite? Nessuno in queste ore ha dichiarato che bisogna tenere in considerazione il problema della salute degli operai e dei cittadini? Cosa volete, siamo in Italia. Del resto, quel signore di cui sopra, davanti all’imminente crollo della Prima Repubblica ed all’estinzione del più grande ed importante partito italiano, così commentò la situazione dell’epoca: “Meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Ad maiora.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 27.05.2013)