Inoltre, il Cda ha annunciato di aver dato mandato ai legali dell’Ilva, di ricorrere nelle sedi competenti contro l’ultimo provvedimento della procura ionica. Come si può facilmente evincere, dunque, siamo nel campo delle ipotesi. Ma l’obiettivo, ancora una volta, è stato centrato in pieno. Perché immediatamente dopo l’annuncio delle dimissioni del Cda, sindacati, istituzioni locali e nazionali hanno iniziato il solito teatrino di dichiarazioni allarmistiche sul futuro sempre più incerto che attende il più grande siderurgico d’Europa, da cui dipende gran parte dell’industria meccanica del paese. Del resto, il Cda dell’Ilva ha scientificamente affondato il dito nella piaga: se chiude Taranto, sono a rischio 24mila posti di lavoro diretti che insieme a quelli dell’indotto raggiungerebbero le 40mila unità. Nessuno, però, si è soffermato sulle motivazioni che hanno portato il Cda alle dimissioni.
Nella nota diffusa dall’ufficio stampa dell’Ilva, si legge infatti che “l’ordinanza dell’Autorità giudiziaria colpisce i beni di pertinenza di RIVA FIRE e in via residuale gli immobili di ILVA che non siano strettamente indispensabili all’esercizio dell’attività produttiva nello stabilimento di Taranto. Per tali motivi il provvedimento ha effetti oggettivamente negativi per ILVA, i cui beni sono tutti strettamente indispensabili all’attività industriale e per questo tutelati dalla legge 231/2012, dichiarata legittima dalla Corte Costituzionale”. In pratica, pur riguardando il sequestro soltanto la Riva FIRE Spa, il gruppo Riva ritiene “oggettivamente” danneggiato nelle sue funzioni l’attività del siderurgico che risponde all’Ilva Spa, separata lo scorso gennaio dal ramo principale del gruppo (la Riva Forni Elettrici, ndr), garantita e protetta dalla legge 231/2012 entrata in vigore a dicembre e giudicata costituzionale dalla Consulta lo scorso 9 aprile. Perché allora se l’Ilva può continuare a produrre, commercializzare il materiale, incassare la liquidità necessaria per acquistare le materie prime dall’estero e pagare regolarmente gli stipendi degli operai così come avvenuto sino ad oggi, si decide di tornare a mettere in discussione tutta la filiera dell’acciaio?
Il problema, ancora una volta, risiede nell’applicazione dell’AIA e della reale situazione economica dell’Ilva Spa, la cui gestione non a caso era stata affidata al liquidatore per eccellenza Enrico Bondi. La “nuova” Ilva Spa, nata appena lo scorso gennaio, non ha le risorse economiche per affrontare i lavori di risanamento imposti all’azienda e da effettuare entro il 2015. Non a caso non è stato ancora presentato il piano finanziario a garanzia della copertura economica dei lavori previsti, così come non è stato redatto il piano industriale. Né è praticabile alcun aumento di capitale, visto che non si sa chi dovrebbe immettere liquidi immediatamente esigibili per garantire un futuro all’azienda. Ed ecco che, stante così le cose, il vero piano dei Riva inizia a palesarsi per ciò che in realtà è sempre stato. Ovvero da un lato attendere gli aiuti economici previsti dal piano Ue per il settore siderurgico che sarà presentato ai primi di giugno dal vice commissario Antonio Tajani, dall’altro obbligare lo Stato a farsi carico della gestione di uno stabilimento abbandonato al suo destino dal gruppo Riva da diversi mesi. Ed in serata arriva guarda caso la notizia che in molti attendevano: domani a Roma il ministro dello Sviluppo Economico Zanonato, incontrerà Enrico Bondi ed il governatore pugliese Vendola, e forse i sindacati. Il tempo stringe: ma sarà vero?
Gianmario Leone (Il Manifesto)
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