Ilva, la Consulta ha depositato le motivazioni
TARANTO – La Corte Costituzionale ha depositato le motivazioni con le quali, il 9 aprile scorso, ha dichiarato in parte inammissibili e in parte non fondate le questioni di legittimita’ costituzionale sugli articoli 1 e 3 della legge 231/2012, cosiddetta ‘salva-Ilva’, sollevate il 15 gennaio e il 22 gennaio scorsi dal Tribunale di Taranto e dal giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco. La Consulta ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate dal gip in riferimento a tre articoli della Costituzione: 25, primo comma, e 27, primo comma (obbligo dell’ordinamento di reprimere e prevenire i reati) e 117 primo comma (limiti del potere legislativo dello Stato). Dichiarate invece ‘non fondate’ tutte le altre questioni di legittimita’ costituzionale sollevate dal gip (che contestava complessivamente la violazione di 17 articoli della Costituzione, tra cui il principio della separazione tra poteri dello Stato) e anche dal Tribunale, per il quale la legge 231 avrebbe violato cinque articoli della Costituzione. (Ansa)
I diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione “si trovano in rapporto di integrazione reciproca” e per questo “non e’ possibile individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri”. Sottolinea la Corte Costituzionale. Non vi e’ infatti una “rigida gerarchia tra diritti fondamentali”, si legge nella sentenza depositata a Palazzo della Consulta, e la “Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi”. Inoltre, per la Consulta, “non e’ intaccato il potere-dovere del pubblico ministero di esercitare l’azione penale” e nella legge “non solo non vi e’ alcuna sospensione di controlli di legalità sull’operato dell’impresa autorizzata alla prosecuzione dell’attività, ma vi sono un rafforzamento ed un allargamento dei controlli sull’osservanza delle prescrizioni contenute nell’Aia riesaminata”. Dunque, la norma censurata “non rende lecito a posteriori ciò che prima era illecito, e tale continua ad essere ai fini degli eventuali procedimento penali instaurati in epoca anteriore all’autorizzazione alla prosecuzione dell’attività produttiva, ne’ – continua la Corte – ‘sterilizza’, sia pure temporaneamente, il comportamento futuro dell’azienda rispetto a qualunque infrazione delle norme di salvaguardia dell’ambiente e della salute”, ma “traccia un percorso di risanamento ambientale ispirato al bilanciamento tra la tutela dei beni indicati e quella dell’occupazione, cioè tra beni tutti corrispondenti a diritti costituzionalmente protetti”. (AGI)