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La falla della legge ‘salva-Ilva’

TARANTO – Soltanto la lettura dei contenuti dei documenti ufficiali ci assicura la possibilità di conoscere l’esatta dinamica dei fatti. E’ quello che abbiamo sempre fatto e continueremo a fare: perché la verità è conoscenza ed allontana l’ignoranza e le parole a vuoto e prive di contenuto che in tanti in questa città continuano a pronunciare sulla vicenda Ilva. Come già riportato sabato, il gip Patrizia Todisco ha respinto per la seconda volta nel giro di un mese l’istanza con la quale la società Ilva s.p.a., nella persona del presidente del Cda Bruno Ferrante, reiterando il 24 aprile l’analoga istanza avanzata già lo scorso 10 aprile, chiedeva alla Procura della Repubblica di Taranto “che si proceda senza indugio a dare esecuzione al disposto di cui all’art. 3 comma terzo del Decreto Legge n. 207/2012, come convertito nella Legge 231/2012, anche disponendo la rimozione dei sigilli dei beni oggetto del provvedimento di sequestro preventivo del gip di Taranto in data 22 novembre 2012 e comunque ogni altra attività necessaria a tal fine”.

Ma perché il gip e prima ancora la Procura hanno dichiarato inammissibile l’istanza presentata dall’Ilva? Il motivo non è da riscontrare soltanto nel fatto che si è ancora in attesa della decisione della Corte Costituzionale, non ancora depositata né, di conseguenza, trasmessa all’autorità giudiziaria di Taranto. E’ chiaro che, come sottolineano gli stessi giudici di Taranto, soltanto la conoscenza delle motivazioni della decisione della Corte, “che non è dato sapere neppure se sia consistita in una declaratoria di infondatezza ovvero di inammissibilità sulle specifiche questioni sollevate in relazione alla richiamata norma della legge 231/2012” sottolineano i giudici, consentirà di “pervenire mediante la interpretazione, costituzionalmente corretta, della norma stessa alla definizione del giudizio sospeso con l’ordinanza di trasmissione degli atti alla medesima Corte”.

Come detto però, il discorso non si esaurisce qui, nonostante l’ironia con cui i pm (il procuratore capo Franco Sebastio, l’aggiunto Pietro Argentino e i sostituti Remo Epifani. Mariano E. Buccoliero e Giovanna Cannarile) hanno liquidato l’iniziativa dell’Ilva, “sorprendente appare l’affermazione secondo cui un “comunicato stampa” costituisce elemento idoneo a privare di qualsiasi fondamento giuridico un provvedimento giurisdizionale cautelare in atto” e giudicato il contenuto dell’ultima istanza in cui l’azienda sottolineava come, qualora non fosse rientrata in possesso del materiale sequestrato (i tubi per la commessa irachena), si sarebbe rivalsa nei confronti dello Stato per il danno economico subìto: “Con riferimento alle ragioni economiche non può non evidenziarsi che esse ovviamente non possono condizionare l’applicazione corretta della legge che, contrariamente a quanto sostenuto dall’istante, sarebbe chiaramente violata dagli scriventi ove accogliessero, allo stato, le sue richieste”.

Ma la verità è un’altra (come sottolineato anche dal sito inchiostroverde.it). Ed i pm di Taranto dimostrano di conoscerla molto bene. A differenza dei legali dell’Ilva che, gioco forza, fanno leva sulla legge 231 che, come quasi l’intera giurisprudenza nostrana, è sempre aperta a doppie e triple interpretazioni. Il nodo di tutto è contenuto nel terzo comma dell’articolo 3 della legge in questione, “Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale”, che ha recepito il testo del decreto 207 del 3 dicembre. Il comma 3 così recita: “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, per un periodo di trentasei mesi, la società Ilva S.p.A. di Taranto è immessa nel possesso dei beni dell’impresa ed è in ogni caso autorizzata, nei limiti consentiti dal provvedimento di cui al comma 2 (36 mesi, ndr), alla prosecuzione dell’attività produttiva nello stabilimento e alla commercializzazione dei prodotti, ivi compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ferma restando l’applicazione di tutte le disposizioni contenute nel medesimo decreto”.

I magistrati di Taranto hanno però ravvisato una falla di non poco conto: la legge 231 infatti, “non dice affatto che il sequestro viene eliminato, ma solo che l’azienda è immessa nel possesso dei beni ed è autorizzata alla produzione e commercializzazione dei prodotti, compresi quelli realizzati prima della sua entrata in vigore. Nel caso che ci occupa, quindi, da un lato il vincolo del sequestro dei beni dell’azienda è confermato dalla stessa legge n. 231/12 invocata per ottenerne la iena disponibilità, dall’altro, in ordine alla commercializzazione dei beni prodotti anche prima della legge 231/12, occorre rilevare che, poiché la suddetta normativa non prevede e non impone il dissequestro di tali beni, ma solo la possibilità di commercializzare quelli prodotti anche prima della sua entrata in vigore, è possibile ritenere che le sue disposizioni riguardino i beni che sono stati prodotti prima dell’entrata in vigore di essa, ma non quelli che pur prodotti prima erano già sottoposti a sequestro ad opera dell’autorità giudiziaria (prima dell’entrata in vigore della legge n. 231/12)”.

Il che spiega il perché la Procura ha consentito, nei giorni scorsi, che l’Ilva rispettasse la consegna dei tubi ordinati dalla Snam e dalla società irachena Oil Projects Company: semplicemente perché i contratti erano stati firmati prima del sequestro dello scorso 26 novembre. Stante così le cose, la Procura sottolinea come “occorre seguire la procedura prevista dalla legge per giungere eventualmente al dissequestro dei prodotti”: pertanto, “solo la trasmissione ad opera della Corte Costituzionale della sentenza con la sua motivazione consentirà ai giudici rimettenti di riavviare i procedimenti sospesi e deciderli”. Il perché è presto detto: se infatti i giudici della Consulta, nelle loro motivazioni, non hanno specificato che anche il prodotto sequestrato deve essere restituito all’Ilva, il materiale resterà sigillato. Anche perché sono stati gli stessi supremi giudici della Corte, nello stringato comunicato stampa emesso lo scorso 9 aprile, a specificare come “le norme censurate non hanno alcuna incidenza sull’accertamento delle responsabilità nell’ambito del procedimento penale in corso davanti ali autorità giudiziaria di Taranto”.

E’ la stessa Consulta, quindi, a ribadire come il procedimento penale non sia assolutamente compromesso dalla legge sottoposta al suo vaglio. E quel milione ed oltre di materiale sequestrato, con il procedimento penale c’entra eccome: visto che è stato sequestrato proprio perché ritenuto “corpo di reato” dell’inchiesta ancora in corso. Se l’intera interpretazione della Procura si dovesse rivelare corretta, l’Ilva sarebbe chiusa in un angolo. E dovrebbe dire praticamente addio ad oltre un milione tra tubi, bramme e coils: per un controvalore che si aggira tra gli 800milioni e il miliardo di euro. A quel punto, il buon Ferrante coadiuvato dal neo ad Enrico Bondi, tirerebbe fuori dal cassetto il copione recitato nei mesi di dicembre e gennaio: in cui è scritto che l’Ilva, senza la vendita di quel prodotto, non può investire nei lavori previsti dalle prescrizioni presenti nell’AIA. E, magari, si tornerebbe a mettere a repentaglio anche il regolare pagamento degli stipendi. Ma questa volta il gioco non reggerebbe. E a saperlo per primo è proprio il buon Ferrante, che dopo l’ennesimo rigetto del gip Todisco, ha preferito restare in silenzio, in attesa anch’egli di conoscere il contenuto delle motivazioni della decisione della Consulta. Intanto, pare di essere tutti in trincea, in rigoroso silenzio, in attesa di conoscere il segnale che sancirà la ripresa delle ostilità. Anche perché, come ammettono gli stessi giudici nella nota inoltrata al gip lo scorso 24 aprile, dopo l’intervento del governo e la sentenza della Consulta, “la confusione appare totale”.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 05.05.2013)

 

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