Ilva, la denuncia di Peacelink: “Riduzione inquinamento solo transitoria”

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“Ci risulta che almeno 11 navi piene di carbon coke sono attraccate a Taranto nel 2013 e hanno rifornito l’Ilva. Sulla base dei dati dell’Osservatore Marittimo, un bollettini sul traffico portuale che abbiamo potuto consultare, le navi che hanno portato carbone coke all’Ilva di Taranto sono le seguenti:

● Ince Inebolu, 22 mila tonnellate di carbon coke

● Astoria, 30 mila tonnellate

● Pedhoulas Leader, 43 mila tonnellate

● Nikos N, 30 mila tonnellate

● Dorado, 32 mila tonnellate

● BCC Danube, 8 mila tonnellate

● Assos Striker, 25 mila tonnellate

● Anatoli, 27 mila tonnellate

● Antonis Pappadakis, 41 mila tonnellate

●Ocean Voyager, 22 mila tonnellate

● Redondo, 43 mila tonnellate

Il tutto per un totale di oltre 320 mila tonnellate di carbon coke.

Da informazioni che abbiamo ricevuto da più parti e che abbiamo sommariamente confrontato con l’ARPA in queste settimane, sembrerebbe che la cokeria dell’Ilva sia in buona parte ferma e questo spiegherebbe la ragione per cui l’azienda si stia approvvigionando di carbon coke.

E’ ragionevole pensare che il fermo tecnico di varie batterie della cokeria dell’Ilva –impegnate nel rifacimento previsto dall’AIA – avrà una sostanziale e determinante ripercussione sulle emissioni di benzo(a)pirene e quindi sulle misurazioni dell’Arpa nel quartiere Tamburi di Taranto. Chiediamo pertanto all’ARPA Puglia di raccogliere tutte le informazioni e di produrre uno studio sulla correlazione fra l’attuale fermo delle batterie e la riduzione delle concentrazioni del benzo(a)pirene che verrà registrata dalle centraline.

Tale studio sarebbe un’importante prova per la magistratura per determinare chi ha inquinato in tutti questi anni il quartiere Tamburi determinando alte concentrazioni di benzo(a)pirene.Le batterie fermate in questi mesi sono proprio le più inquinanti e le più vicine al fronte urbano, come la 3, la 4, la 5 e la 6. Quelle rimaste in attività sono le più distanti dall’abitato. E’ ovvio che acquistando del carbon coke l’azienda evita di produrlo abbattendo drasticamente le emissioni della cokeria. Ma il miglioramento della situazione ambientale nel quartiere Tamburi determinato da questa contingenza sarà però solo di natura temporanea.

Infatti l’AIA non prevede il fermo delle batterie e l’acquisto del carbon coke. Quanto avviene oggi è pertanto solo un dato transitorio, destinato a peggiorare quando le cokerie ritorneranno a funzionare a pieno regime e non vi sarà quindi più bisogno di acquistare il carbon coke. Attenzione quindi a non scambiare le eventuali diminuzioni dell’inquinamento dei Tamburi – per quanto sostanziose – con una “svolta storica” e come il benefico “successo della nuova AIA”: siamo semplicemente di fronte al fermo di varie batterie della cokeria e il fatto l’inquinamento diminuisca non è altro che la prova provata che la fonte preponderante del benzo(a)pirene nei Tamburi era l’Ilva.

L’aria del quartiere Tamburi tuttavia rimane non salubre. Lo dimostriamo con i dati del PM10 (polveri sottili) della centralina dell’Arpa di via Machiavelli nel quartiere Tamburi. Tali dati sono stati moltiplicati per il “coefficiente di tossicità” di quelle polveri sottili, pari a 2,226. Grazie a questo calcolo possiamo dichiarare che chi vive nel quartiere Tamburi è ancora a rischio, nonostante il calo della concentrazione del PM10. Ad esempio 32 microgrammi di PM10 nel quartiere Tamburi di Taranto hanno effetti sanitari, in termini di mortalità, equivalenti a 70 microgrammi di PM10 a Milano, a Torino o a Bologna. Ma mentre a Milano, Torino o Bologna il valore di 70 segnerebbe uno sforamento del limite di legge, a Taranto il valore di 32 risulta “a norma”, pur rappresentando lo stesso pericolo in termini di mortalità. Ciò è causato dalla composizione chimica delle polveri ddi Taranto, come affermato dall’Istituto Superiore della Sanità.

PeaceLink chiede al Centro Ambiente e Salute di Taranto (in cui confluiscono le competenze di Asl e Arpa) di fornire i dati della mortalità e dei ricoveri mese per mese, suddivisi per quartiere, età, sesso, causa e professione. Ad oggi invece i morti vengono resi noti solo dopo tre anni mentre i ricoveri non vengono comunicati al pubblico, evidentemente per una scelta politica: quella di non allarmare la popolazione. E soprattutto ciò non viene fatto, evidentemente, per non indagare sul nesso fra danni alla salute e inquinamento. A tal fine nel file allegato riportiamo importanti informazioni che dimostrano come è possibile studiare il nesso fra ricoveri ed emissioni di un’acciaieria nell’Utah (Stati Uniti)”.

Comunicato stampa di Peacelink

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