L’ultimo anno ha registrato dunque una crescita del gruppo, ed anche nel 2013 si prevede un +10% del margine operativo lordo, superiore ai 150 milioni di euro (138,054 milioni di euro nel 2012) e ricavi in aumento oltre il miliardo di euro (976 milioni nel 2012). Questo nonostante nel primo trimetre 2013 il fatturato è in linea o migliore rispetto al budget ma più basso dell’anno scorso (195,4 milioni nel primo trimestre 2012) a causa “del marzo più freddo del Nord Europa e il più piovoso in Italia”, che ha impattato sulla produzione e quindi sulla vendita di cemento. Ma la previsione è che questi cali vengano recuperati nel corso dell’anno. Perché allora congelare il progetto “Nuova Taranto”?
Il motivo è semplice: la Cementir sconta la congiuntura negativa del mercato italiano rispetto a quello estero. Presente in ben 16 paesi, oggi per il gruppo Caltagirone l’Italia (che rappresenta una quota dei ricavi intorno al 13/14%) a causa di un mercato ancora in contrazione, ha riportato un risultato operativo negativo per 24,3 milioni: in pratica, senza l’Italia, l’utile netto del gruppo sarebbe volato oltre i 30 milioni. Che fare dunque? Per ora non è prevista la chiusura di uno dei quattro impianti italiani: la parola d’ordine è infatti razionalizzare (“cambiare il layout della produzione”).
Per fare questo, la produzione a caldo avverrà solo in due stabilimenti: nel mercato italiano i consumi sono infatti calati a 20/22 milioni di tonnellate a fronte di una capacità produttiva di 60 milioni. Stante così le cose, e visto che la previsione parla di una ripresa che avverrà non prima dei prossimi 4-5 anni, “non conviene” investire 150 milioni sull’impianto di Taranto. Il progetto (che aveva ottenuto un finanziamento di 90 milioni di euro dalla Banca Europea degli Investimenti, ed un finanziamento pubblico a fondo perduto dalla Regione Puglia garantito dal Fondo europeo per lo sviluppo regionale nell’ambito del programma operativo 2007-2013) prevede il rifacimento dell’impianto di macinazione e la costruzione di un nuovo forno (al posto dei tre esistenti), la dismissione di parte dell’impiantistica del cementificio esistente ed in esercizio dagli anni ’60, l’integrazione delle nuove linee con i servizi ausiliari e alcuni impianti oggi in uso, l’integrale sostituzione della linea clinker (costituita da mulino del crudo, forno, recuperatore termico, precalcinatore, griglia di raffreddamento del clinker, e deposito del clinker) e la sostanziale riqualificazione della linea cemento.
Nelle previsioni del gruppo, questo avrebbe comportato il mantenere invariata la capacità produttiva del sito di Taranto: 1 milione e 200mila tonnellate annue di cemento e 800mila tonnellate di clinker. Ma vista l’aria che tira, la Cementir ha deciso di congelare il tutto. “Abbiamo fatto una doppia valutazione – ha spiegato ieri Francesco Caltagirone Jr -: da quando è partito l’investimento il mercato è calato del 30%”. Ma non c’è soltanto questo: perché come abbiamo da sempre denunciato, il ciclo di vita della Cementir è direttamente legato all’Ilva. Ed infatti lo stesso Caltagirone afferma: “Oggi a Taranto dobbiamo considerare anche le problematiche dell’Ilva.
Al momento non vale la pena investire 150 milioni: è più conveniente andare avanti con il vecchio impianto”. Lo scrivemmo proprio pochi giorni fa: la cementeria è legata a doppio filo al siderurgico, visto che è sorta nel lontano 1964 contemporaneamente al Centro Siderurgico Italsider, di cui utilizza le loppe d’altoforno. Che altro non è che un sottoprodotto del processo di produzione della ghisa, durante il quale si formano grandi quantità di scoria liquida di composizione non lontana da quella del cemento Portland. La scoria acquista caratteristiche idrauliche se all’uscita dall’altoforno viene raffreddata bruscamente e trasformata in granuli porosi a struttura vetrosa (silice amorfa) detti loppa granulare. Questi in seguito vengono macinati in modo da ottenere una polvere di finezza paragonabile a quella del cemento.
Ma se l’Ilva chiude, difficilmente Caltagirone terrà in vita un impianto vetusto, per cui servirà inoltre acquistare la loppa altrove, gravando ulteriormente sui costi. Nel “congelatore”, ovviamente, finisce anche la costruzione del co-inceneritore previsto nel progetto “Nuova Taranto”. Nonostante all’estero le attività nel settore anticiclico del trattamento dei rifiuti e delle generazione di energia da rifiuti vadano più che bene, il gruppo “non investirà in Italia finché non ci sarà una normativa chiara”. Dunque naufraga, per il momento, anche “l’ideona” del governo Monti e del ministro dell’Ambiente Corrado Clini.
Il 29 marzo scorso era infatti entrato in vigore il Decreto n.22 del 14 febbraio 2013, che autorizza i cementifici a bruciare il Cdr, oggi chiamato combustibile solido secondario (Css) e non più considerato un rifiuto. Siamo curiosi di vedere cosa diranno i sindacati e Confindustria. Con chi se la prenderanno adesso? Ora che Caltagirone Jr ha affermato che “non conviene” portare avanti l’investimento su Taranto, a chi attribuiranno la colpa? Ciò detto, la crisi economica che ha colpito il processo industriale dei grandi gruppi imprenditoriali italiani (che all’estero hanno investito e qui tirato a campare a discapito di aziende, lavoratori, salute, ambiente e territorio), può essere un’occasione irripetibile per chiudere i conti con il passato, immaginando e costruendo dal basso un futuro economico del tutto alternativo alla grande industria anche e soprattutto per Taranto.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 19.04.2013)
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