I legali dell’azienda ricorsero immediatamente, Ferrante fu reintegrato nei custodi da un nuovo pronunciamento del Riesame il 28 agosto, contro il quale la Procura ricorse nuovamente sostenendo che il reintegro poteva avvenire soltanto dopo il pronunciamento della Cassazione. Lo scorso 25 ottobre, il Riesame accolse la tesi della Procura, sospendendo nuovamente Ferrante dal ruolo di custode. A scrivere la parola fine sull’intera vicenda è stata ieri la Cassazione. Ciò detto, è bene ricordare che gli altri tre custodi – Barbara Valenzano, Emanuela Laterza, Claudio Lofrumento e Mario Tagarelli, quest’ultimo attinente la parte amministrativa – sono in carica soltanto formalmente, perché di fatto non esercitano il loro ruolo dallo scorso dicembre, quando con l’entrata in vigore del decreto 207 che diede poi vita alla legge sull’Ilva (la 231/2012), gli impianti dell’area a caldo furono reimmessi nella disponibilità e nell’uso dell’azienda, mentre dal 26 luglio sino ai primi di dicembre furono gestiti dagli stessi custodi.
Il pronunciamento della Cassazione, non pare però “turbare” i sonni del buon Ferrante, che tramite i legali ha fatto sapere di aver già deciso di rinunciare, bontà sua, all’incarico di custode dopo il pronunciamento della Corte Costituzionale dello scorso 9 aprile, quando la legge ‘salva-Ilva’ venne definita costituzionalmente legittima dai supremi giudici. Inoltre, è bene ricordare ancora una volta la situazione paradossale in atto ancora oggi: gli impianti dell’area a caldo sono infatti ancora “virtualmente” sotto sequestro, in quanto l’Ilva non ha mai presentato ricorso in Cassazione contro la requisizione ed oramai i tempi per farlo sono scaduti da mesi.
Intanto, dopo appena pochi giorni dal suo arrivo a Taranto nel ruolo di amministratore delegato, sono già iniziate le leggende intorno alla figura di Enrico Bondi. Pare infatti che il piano della direzione dove si trova il suo ufficio, su disposizione dello stesso Bondi, abbia sempre le porte aperte. Prima, invece, pare bisognasse citofonare, farsi aprire dall’interno e infilare nell’apposito dispositivo il badge di accesso. Cosa ci sia di straordinario nell’avere le porte aperte, non è dato sapere. Forse, l’anomalia era prima. Forse. Tornando seri, il neo ad ha iniziato a svolgere una serie di riunioni con i dirigenti e i funzionari dell’Ilva. L’Ilva infatti attende la restituzione dell’acciaio sequestrato lo scorso 26 novembre, per rispettare le consegne e far tornare a pieno regime l’area a freddo. Ma l’azienda dovrà ancora attendere, in quanto la Procura, dopo aver rigettato l’istanza dello scorso 10 aprile con cui Ferrante chiedeva la restituzione del maltolto “senza indugio”, attende di conoscere le motivazioni della Corte Costituzionale in merito alla decisione assunta dalla stessa lo scorso 9 aprile. Soltanto dopo si provvederà, forse, alla restituzione del materiale.
Intanto, è ripartito il tubificio 2, dopo che l’1 era stato riavviato nei giorni scorsi. Nell’area a freddo è in produzione il treno nastri 2, i due tubifici, un settore della laminazione a freddo e il tubificio ERW. E quasi certamente ripartirà anche il treno nastri 1, fermo da tempo, con i lavoratori dello stesso in cassa integrazione dal lontano 2008. Ma alla ripartenza del treno nastri 1 è direttamente collegato lo sblocco delle merci sequestrate, visto che parte di esse, 6-700mila tonnellate di bramme, si possono lavorare anche e soprattutto nel treno nastri 1.
Tornando alla vita reale della fabbrica, quella che vede i lavoratori in prima linea e da sempre vittime del processo produttivo dell’Ilva, il coordinatore provinciale dell’USB (Unione sindacale di base) di Taranto, Francesco Rizzo, ha scritto al presidente Ilva, Bruno Ferrante, al neo ad Enrico Bondi e al direttore, Antonio Lupoli, chiedendo l’autorizzazione ad istituire una cassa di solidarietà in favore di un operaio del siderurgico, di 36 anni, in Ilva dal 1999, che ha contratto un tumore al collo per due volte nel giro di poco più di un anno e ha bisogno di sostegni economici per curarsi. L’aiuto, spiega Rizzo, si concretizzerebbe nel “libero contributo dei lavoratori tramite la trattenuta delle ore sulla busta paga ove fosse autorizzata e sottoscritta liberamente”. Il lavoratore deve fare “ricorso obbligato a strutture sanitarie fuori regione, motivo di un esborso pesantissimo di denaro”. Operaio che da qualche anno è retribuito in misura ridotta perché costretto a lunghi periodi di malattia e per la cassa integrazione in atto. Del resto, un po’ di solidarietà in tempo di contratti di solidarietà non può che fare bene.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 18.04.2013)
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