Ilva, è arrivato Bondi – Domani il referendum sulla chiusura
TARANTO – All’indomani dell’investitura come nuovo amministratore delegato dell’Ilva Spa, Enrico Bondi è sceso a Taranto per varcare per la prima volta nella sua vita i cancelli del più grande siderurgico d’Europa. Il primo passo compiuto dal neo ad è stato quello di visitare l’area a caldo dell’Ilva, dove si trovano gli impianti inquinanti al centro dell’inchiesta della magistratura tarantina per disastro ambientale sequestrati lo scorso luglio, che dovranno essere interessati dai lavori di risanamento prescritti nell’Autorizzazione integrata ambientale (AIA) rilasciata dal ministro dell’Ambiente Corrado Clini lo scorso 26 ottobre: l’area dei cinque altiforni, le dieci batteria dei forni a coke dell’area cokerie, l’area ghisa-agglomerato e i parchi minerari.
Dopo il sopralluogo, a presentarlo a quadri e dirigenti, è stato il presidente Ilva Bruno Ferrante in persona. Parlando ai presenti, Bondi ha definito l’AIA “un punto di partenza”, azzardando addirittura come l’intento della proprietà sia in realtà quello di fare “ancora meglio”. E ribadendo, ovviamente, l’impegno per la salvaguardia dell’occupazione. Bondi ha definito l’incarico affidatogli “un’avventura nella quale credo molto”: una sorta di Indiana Jones del nuovo millennio. Concludendo il suo discorso riprendendo un vecchio slogan dell’Ilva, che da questi parti abbiamo oramai imparato a memoria: “Dobbiamo impegnarci tutti a fare sempre meglio sul piano della qualità, della sicurezza e dell’ambiente”.
A quanto si è appreso Bondi sarà di ritorno a Taranto già la prossima settimana, per incontrare operai, sindacati e giornalisti. Ma al di là dei convenevoli, a riportare tutti alla dura realtà è stato ancora una volta il presidente Bruno Ferrante. Per ricordare ai presenti che si è già entrati in una nuova era. Che come detto vedrà l’imminente separazione dell’Ilva Spa dal gruppo Riva FIRE: “A breve cambierà il logo dello stabilimento e sparirà la scritta Riva FIRE”. Non si sa mai qualcuno avesse ancora qualche dubbio. Tagliare ogni legame possibile con il gruppo Riva e il tesoro di famiglia: questo l’obiettivo da raggiungere quanto prima. Dopo di che arriverà il momento di approvare da parte del Cda, il bilancio Ilva del 2012: soltanto in un secondo momento si penserà a presentare il piano industriale e il piano investimenti a garanzia e copertura finanziaria degli investimenti previsti per far fronte agli interventi di risanamento sugli impianti dell’area a caldo previsti dall’AIA.
Ma da dove Enrico Bondi prenderà questi soldi resta un mistero. Perché quei soldi, semplicemente, non ci sono. Quanto meno non nelle casse della futura Ilva Spa. Nella cassaforte della famiglia invece, quei soldi sono ben custoditi. Nelle holding in Lussemburgo (Siderlux, Stahlbeteiligungen e Utia, società che controllano le aziende Riva nel mondo), controllate a loro volta dalla holding olandese Monomarch. Che a sua volta è controllata dalla holging regina che si trova a Curucau nei Caraibi, dove è custodita la cassaforte del gruppo, la Luxpack Nv, società a responsabilità limitata (Llc) con capitale di appena 6mila dollari. Il presidente è Adriano Riva, fratello del patron Emilio.
La Luxpack, come sostenuto dal Sole24Ore, è l’unica azionista dell’olandese Monomarch, che gestisce le società lussemburghesi proprietarie del 39,9% della Riva FIRE, a sua volta (ex) unica azionista dell’Ilva S.p.A. Ma i soldi veri appartengono alla Riva FIRE, gruppo di cui l’Ilva Spa non farà più parte. Nonostante quegli stessi soldi siano arrivati proprio grazie alla vendita dell’acciaio prodotto dall’Ilva di Taranto dal 1995 ad oggi. Ma come riportato ieri su queste colonne, il gruppo Riva ha già iniziato lo smantellamento dell’impero Ilva in Italia, partendo dalla sua periferia. Annunciando 24 mesi di cassa integrazione straordinaria per i 70 lavoratori dello stabilimento Ilva di Pratica, in provincia di Frosinone nel Lazio. Dove ieri si è svolta una manifestazione di protesta dei lavoratori, già in cassa integrazione fino al 25 maggio.
L’azienda ha annunciato la cessazione delle attività. Nei mesi scorsi per l’Ilva di Patrica era stato deciso un ridimensionamento a officina per carpenteria leggera a disposizione dello stabilimento di Taranto. Come si può facilmente evincere da questi accadimenti, le parole di Bondi e Ferrante su un futuro roseo per l’Ilva Spa rasentano l’oltraggio alla dignità di migliaia di lavoratori che vengono liquidati con un tratto di penna insieme alle fabbriche che sono servite ad arricchire un gruppo che da tempo ha iniziato la sua fuga: con bottino annesso. Tornando alle cronache nostrane, domani è il giorno tanto atteso del referendum consultivo sull’Ilva. Ignorato per anni da tutti (tranne che dal comitato promotore, dai comitati Legamjonici e Taranto Lider, oltre che da questo giornale), è diventato l’argomento principale di un’intera città.
Promosso nel 2007 dal comitato Taranto Futura, passato dalle forche caudine del TAR di Lecce (dopo i ricorsi del 2010 dell’allegra compagnia formata da Ilva, Confindustria, Cgil e Cisl), salvato dal Consiglio di Stato nell’ottobre 2011, osteggiato dal Comune (il sindaco Stefàno ha protratto a lungo l’iter burocratico assicurando all’ex Pr dell’Ilva Girolamo Archinà il suo impegno in tal senso in un’intercettazione telefonica risalente al luglio 2010 e presente negli atti dell’inchiesta “Ambiente Svenduto), la consultazione referendaria arriva nel momento più caldo della vicenda Ilva, dividendo ancora una volta la città. Dei 5 quesiti originari, i tarantini nelle schede ne troveranno appena 2 (dichiararsi favorevoli o contrari alla chiusura della sola area a caldo o quella totale dello stabilimento). Il terzo, quello che prevedeva la bonifica delle aree inquinate con i soldi dei Riva e dello Stato e con l’impiego nell’attività degli operai Ilva, è stato cancellato perché, secondo quei geni che abitano Palazzo di città, è oramai superato dagli eventi. Leggasi i 393 milioni di euro previsti per la bonifica di un’area che va da Statte al Mar Grande sino al Mar Piccolo. Tamburi compresi.
Di quei milioni, nemmeno 1 centesimo proviene dalle casse dei Riva. E quei 393 milioni sono un’inezia rispetto ai soldi che ci vorrebbero per attuare una vera bonifica. Senza contare che solo in Italia si può pensare di avviarla lasciando accesi quegli impianti che hanno contribuito ad inquinare ciò che ora si vuole bonificare. Tornando al referendum consultivo, anche questa iniziativa è stata capace di dividere in tante schegge impazzite gli abitanti di questa città. Cgil, Cisl, Uil e Confindustria hanno confermato il loro secco no. I partiti si sono divisi tra chi invita a disertare le urne ma “può andare a votare” (Pd), chi lascia libertà di voto (Pdl), chi propone scheda bianca (Prc), chi propende solo per la chiusura dell’area a caldo (SEL).
Spaccatura anche nel mondo dell’agricoltura (no da Coldiretti, sì da Confragricoltura), scetticismo e indecisione tra comitati cittadini e ambientalisti. Insomma, grande è la confusione sotto il cielo di Taranto. Come sempre del resto. Migliaia di cittadini intenti a battagliare su facebook, ognuno possessore della verità assoluta. Un tutti contro tutti che come al solito non ci porterà da nessuna parte. E che sta consentendo al gruppo Riva di defilarsi da Taranto e dalla gestione dell’Ilva con una facilità irrisoria. A noi, resteranno le briciole. Forse. Tutt’al più, una cattedrale nel deserto.
Ed anche allora, di fronte alle rovine, battaglieremo come cani rabbiosi accusandoci l’un l’altro del non aver fatto e del non aver detto. Da tanti, troppi anni, su queste colonne ribadiamo come l’unica salvezza possibile sia una soltanto: mettere al primo posto e al centro di tutto Taranto. Il suo futuro. Lontano dalla grande industria. Valorizzando il territorio e le sue risorse. E’ questo l’unico bene comune da difendere. Ma vuoi mettere al confronto con l’avere ognuno i propri 15 minuti di gloria? Sarà che aveva ragione il filosofo danese Kierkegaard quando diceva che “l’uomo non fa quasi mai uso delle libertà che ha, come per esempio della libertà di pensiero: pretende invece come compenso la libertà di parola”. O forse aveva capito tutto lo scrittore russo Lev Tolstoj, quando affermava che “tutti pensano a cambiare l’umanità, ma nessuno pensa a cambiare sé stesso”? Chissà. Intanto, buon referendum a tutti.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 13.04.2013)
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