Una VIA confusa
Come si ricorderà, lo scorso 20 febbraio denunciammo il rilascio di VIA per la prima fase delle ricerche da parte del ministero dell’Ambiente (articolo dal provocatorio titolo “Eni, VIA alle trivelle”), atto che il giorno dopo venne seccamente smentito prima da una nota ufficiale dell’ufficio stampa di via Cristoforo Colombo e poi dallo stesso ministero, in cui si leggeva che “Il ministero dell’Ambiente non ha dato alcun via libera all’Eni per fare perforazioni nel golfo di Taranto. Non è vera la notizia circolata su alcuni organi di stampa secondo cui il ministero avrebbe concesso un’esclusione alla Valutazione di impatto ambientale (Via) a un progetto della compagnia petrolifera nello Ionio, consentendo così le trivellazioni: il ministero non ha espresso, né poteva esprimere, una valutazione su un progetto che non è mai stato presentato”.
Dopo aver pubblicato sul giornale l’immagine della pagina ufficiale del sito del MISE della sezione “Risorse minerarie ed energetiche” in cui era riportato esattamente quanto da noi denunciato, disorientati dalle divergenze da parte di due importanti ministeri sulla stessa vicenda, contattammo il dirigente responsabile del procedimento, che confermò quanto da noi sostenuto: “Minambiente ha rilasciato un’esclusione da VIA sulla prima fase della ricerca – si tratta di studi a tavolino non impattanti sul territorio – ma la valutazione non riguardava perforazioni, che sono soggette ad un altro iter autonomo, successivo al conferimento del permesso”. Dopo aver pubblicato quanto sopra in due articoli diversi (“Trivelle, è una VIA misteriosa” e “Progetto Eni, è tutto vero”, datati rispettivamente 22 e 23 febbraio), dal ministero dell’Ambiente non abbiamo avuto più alcuna smentita. Così come sull’argomento, almeno sino ad oggi, non è mai intervenuta l’azienda Eni.
Si studiano le carte
Ciò detto, non potevamo di certo accontentarci di restare sospesi in questo limbo. Per questo abbiamo continuato le nostre ricerche, che ci hanno condotto al dott. Franco Terlizzese, direttore generale della “Direzione generale risorse minerarie ed energetiche del Dipartimento Energia” del ministero dello Sviluppo Economico, con il quale abbiamo avuto un paio di franchi ed utilissimi colloqui telefonici per dipanare la matassa in questione. Terlizzese ha subito voluto sgombrare il campo da ogni equivoco: “Ciò che “TarantoOggi” ha riportato in merito alla vicenda è assolutamente corretto, ma lo è altrettanto ciò che sostiene il ministero dell’Ambiente”. Ciò che può sembrare un controsenso, in realtà non lo è.
E adesso spiegheremo il perché. “Quell’esclusione della VIA, altro non è che un permesso di ricerca sull’area individuata dall’Eni per quanto concerne soltanto la prima fase che non comporta attività alcuna nella zona in questione, ma soltanto il poter continuare ad approfondire gli studi e le carte in possesso dell’azienda”. In pratica, ciò che scrivemmo già nel primo articolo, quando riportammo che in questo genere di ricerche la prima fase consiste in un approfondimento di studi geologici e nell’acquisizione di linee sismiche, che consentono di effettuare studi geologici e sismici approfonditi mediante l’impiego di differenti tecniche di analisi, incluse tecniche di fotogeologia, cartografia geologica superficiale, studio delle relazioni strutturali, analisi dei pozzi precedentemente scavati, analisi paleontologiche e micro-paleontologiche.
Sempre nello stesso articolo specificavamo, per sgombrare il campo dal qualsivoglia equivoco, che soltanto qualora la prima fase dei lavori confermi l’esistenza, entro l’area del permesso, di una o più situazioni geominerarie meritevoli di accertamento, si procederà alla perforazione di uno o più pozzi esplorativi. Questa viene definita “seconda fase”: che però, come vedremo più avanti, segue tutt’altro iter.
Certo, il nostro titolo provocatorio, “Eni, VIA alle trivelle”, può aver infastidito qualcuno a Roma, ma la parola “via” era in maiuscolo proprio in riferimento alla Valutazione d’Impatto Ambientale e non era affatto da intendersi come azione che dava il via alla perforazione dei fondali della zone di mare in questione: anche perché già nell’occhiello specificavamo come l’esclusione della VIA era appunto soltanto per la “prima fase”.
Chiarito l’equivoco, il dott. Terlizzese ci ha poi rivelato una cosa importante, certamente non di secondo piano. “L’Eni ha chiesto l’ok per continuare i suoi studi di elaborazione ed interpretazione dei dati già acquisiti in passato, chiedendo che l’area in questione sia di sua esclusiva competenza nel caso in cui tali studi in corso dovessero indicare la concreta possibilità della presenza in mare di idrocarburi tutta da verificare con la realizzazione di attività sul territorio (rilievi sismici ed eventuali perforazioni”.
Il motivo di tale richiesta, è di natura squisitamente economica: tali studi comportano infatti un utilizzo notevole di risorse economiche.Questo vuol dire che l’Eni non vorrebbe trovarsi nella situazione in cui, una volta terminate le elaborazioni a tavolino senza attività sul territorio ed individuata l’eventuale presenza di idrocarburi nella zona interessata, si ritrovi qualche altra multinazionale del petrolio come concorrente.
La VIA é una strada obbligata
Ciò non vuol dire però che l’Eni avrà vita facile. Questo perché, come ci ha spiegato lo stesso Terlizzese, “qualunque attività operativa che l’azienda vorrà svolgere nell’area che non sia di studio, dovrà per forza passare attraverso la presentazione della VIA (Valutazione d’Impatto Ambientale, ndr) e dal suo eventuale rilascio da parte del ministero dell’Ambiente”. E questo “passaggio obbligato”, che è garantito dal Codice dell’ambiente del 2010 poi riconfermato nel 2012, spiega il perché il ministero dell’Ambiente ha sostenuto di non aver mai ricevuto alcun progetto da parte dell’Eni. Dunque, nonostante l’attuale permesso di ricerca, qualunque attività l’azienda vorrà svolgere nell’area, dovrà avvenire tramite richiesta di rilascio della VIA. Sembra così risolto il piccolo mistero sul perché l’Eni abbia usufruito di un “trattamento speciale” rispetto alle altre dieci istanze di ricerca di idrocarburi nel Golfo di Taranto presentate dalla Appenine Energy Srl e dalla Shell: i programmi delle altre società infatti, prevedono già lo svolgimento di attività sul territorio.
Regione e comitati cittadini: pareri non vincolanti
Resta in piedi quanto denunciato dal comitato “No Triv”, ovvero che “l’esclusione della VIA dalla prima fase preclude ai comitati cittadini di poter partecipare attivamente ad una fase amministrativa importantissima escludendo, di fatto, la possibilità di presentare osservazioni ed esprime parere negativo alla ricerca di idrocarburi in mare a causa del grave pericolo di danno ambientale che tale attività industriale comporta”. Eventualità questa che viene confermata anche dal dott. Terlizzese, il quale però pone il dubbio sul fatto che “bisogna vedere se viene leso in qualche modo qualche diritto”.
Osservazione non del tutto fuori luogo se si tiene conto di un particolare non da poco. Per quanto riguarda infatti le attività “in mare”, per legge le Regioni sono obbligate a dare il loro parere sulla VIA dei progetti, ma il loro responso non è vincolante. Dunque, parlando per ipotesi, qualora l’Eni presentasse il progetto di VIA per perforare nel golfo di Taranto, anche qualora la Regione Puglia si opponesse (come peraltro avvenuto ogni volta in questo campo, con l’ultimo no alla Shell di qualche giorno fa), l’ultima parola spetterebbe al ministero dell’Ambiente.
L’Italia non rispetta la direttiva Ue e la Conferenza di Barcellona
Certo è che, così agendo, qualcosa lo si è certamente violato: è la direttiva della Corte di Giustizia della Comunità Europea che nel 2009 ha indicato l’obbligo delle autorità amministrative competenti di comunicare ai cittadini che ne hanno fatto richiesta, dei motivi per i quali la decisione di esclusione della valutazione degli impatti ambientali è stata assunta.
Ciò detto, seguiremo questa vicenda passo dopo passo. Anche perché, come già sottolineato recentemente su queste colonne, l’Italia non ha affatto recepito l’indirizzo assunto dall’Ue in merito alla tutela ambientale. Durante il Consiglio del 17 dicembre 2012 con decisione pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea del 9 gennaio scorso, l’Ue ha infatti aderito al protocollo relativo alla protezione del Mare Mediterraneo dall’inquinamento derivante dall’esplorazione e dallo sfruttamento della piattaforma continentale, del fondo del mare e del sottosuolo dall’attività petrolifere offshore.
Non solo. Perché l’Italia non ha applicato nemmeno quanto stabilito dalla Convenzione di Barcellona (come denuncia il sito altreconomia.it), entrata in vigore il 12 febbraio 1978, poi modificata il 10 giugno 1995 in “Convenzione per la protezione dell’ambiente marino e della regione costiera del Mediterraneo”. La Convenzione di Barcellona ha portato alla stesura di 7 protocolli d’intesa tra i 21 Stati aderenti, tra i quali il “Protocollo contro il pericolo di inquinamento del Mediterraneo derivante dal trasporto e dallo scarico in mare di sostanze pericolose”, che attualmente non è in vigore in Italia e che apre le porte a possibili contaminazioni del mare.
Passera e Clini pro ricerca idrocarburi
Come non bastasse, ulteriore fonte di preoccupazione in questo senso deriva dalla strategia energetica che il Ministro dello Sviluppo economico delle Infrastrutture e dei Trasporti Corrado Passera e il Ministro dell’Ambiente Corrado Clini, hanno approvato tramite Decreto Interministeriale la scorsa settimana, che punta anche e soprattutto sulla ricerca di idrocarburi in terraferma e in mare. A tal proposito, il 28 febbraio è stato allegato al Bollettino ufficiale degli idrocarburi e delle geo risorse (BUIG) della Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche del ministero dello Sviluppo economico, un supplemento di 76 pagine intitolato “Il Mare”, interamente dedicato alle attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi in mare ed al loro sviluppo futuro, in cui figurano espliciti riferimenti ai prossimi orientamenti in campo petrolifero.
Nel documento, si legge che “con riferimento al settore dell’upstream (termine di origine americana che indica tutte quelle attività svolte allo scopo di rilevare ed estrarre gli idrocarburi presenti nel sottosuolo.), l’Italia ha a disposizione ingenti riserve provate di gas e petrolio, le più importanti dell’Europa continentale dopo i paesi nordici. In particolare, dagli ultimi dati disponibili circa il 60% delle riserve di gas si trova nelle zone marine e proprio dal mare proviene anche il 70% della produzione italiana”. Come ricorda anche il supplemento del MISE, “le attività offshore sono state profondamente condizionate proprio dalle modifiche introdotte in passato al Decreto legislativo n.3 aprile 2006 n.152 che ha interdetto tali attività in molte aree, bloccando di fatto la maggior parte delle attività di ricerca e sviluppo offshore e cancellando progetti per 3,5 miliardi di euro”. Soldi che adesso si cercherà di recuperare in qualche modo.
Il mar Ionio e il Golfo di Taranto nel mirino
Attualmente, per quanto concerne l’Adriatico, lo Jonio ed il mar di Sicilia, ci sono 21 permessi di ricerca vigenti in mare, 37 nuove istanze per permessi di ricerca, 66 concessioni di coltivazione vigenti e 11 istanze per nuove concessioni di coltivazione. Chiudiamo il quadro con il “Piano strategico della società per il periodo 2013-2016” presentato dall’Eni giovedì 14 marzo che prevede un investimento complessivo di 56,8 miliardi di euro, tra i cui obiettivi è indicato “un alto tasso di crescita della produzione di idrocarburi , supportata da eccezionali successi esplorativi”. Insomma, c’è poco stare allegri. “Quando avrete abbattuto l’ultimo albero, quando avrete pescato l’ultimo pesce, quando avrete inquinato l’ultimo fiume, allora vi accorgerete che non si può mangiare il denaro” (proverbio Indiano).
Gianmario Leone (TarantoOggi, 18.03.2013)
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