Ilva, dove finirà l’acciaio conteso?
TARANTO – Si discuterà quest’oggi, davanti al Tribunale dell’Appello, il ricorso presentato dai legali dell’Ilva avverso l’ordinanza del gip Patrizia Todisco che ha autorizzato i custodi giudiziari a vendere l’acciaio sequestrato lo scorso 26 novembre nell’ambito dell’inchiesta sul siderurgico, il cui controvalore economico sarà depositato in un deposito da utilizzare ai fini dell’eventuale confisca quando il procedimento si sarà concluso. Sempre oggi lo stesso Tribunale esaminerà il ricorso relativo alla richiesta di libertà di Nicola Riva, ex presidente dell’Ilva, ai domiciliari dallo scorso 26 luglio.
L’azienda, dopo aver chiesto per mesi lo sblocco della merce sequestrata come azione imprescindibile per “continuare la vita aziendale che è gravemente danneggiata dai provvedimenti della magistratura”, una volta appresa la decisione del gip Todisco si è immediatamente opposta ad un’operazione che la vede del tutto estromessa. Per gli avvocati dell’Ilva, si legge infatti nell’esposto, se il provvedimento del gip che dispone la “vendita coatta e immediata trovasse esecuzione, sarebbe violato il diritto dell’impresa all’esercizio dell’attività di impresa”.
L’avvocato Marco De Luca, che assiste l’azienda insieme al collega Egidio Albanese, fonda il suo teorema partendo dalla legge 231 dello scorso 24 dicembre, la così detta “salva Ilva”, che autorizza l’azienda sia a produrre che a commercializzare anche quanto prodotto prima del 3 dicembre (data del decreto legge che dà vita ad un inedito effetto retroattivo) ed evidenzia che l’attività di impresa “si regge sulla commercializzazione non meno dell’attività produttiva”. Da qui la fondamentale necessità “che la commercializzazione sia condotta dall’azienda interessata, pena lo snaturamento del concetto di attività di impresa”.
Inoltre, si legge sempre nell’esposto, “la vendita coattiva e immediata si traduce necessariamente e sempre in una svendita” e quindi “la violazione del diritto è associata ad un futuro e certo danno economico”. Sinceramente, al di là pur invidiabile arte oratoria dei legali, non si capisce quale differenza vi sia se a vendere l’acciaio sia l’ufficio commerciale dell’azienda o i custodi giudiziari. Soprattutto di fronte al fatto che l’azienda ha sempre sostenuto come quell’acciaio fosse stato già venduto. Dunque, di quale “svendita” parliamo se i contratti sono stati già firmati? Evidentemente non è vero che quel materiale era stato già venduto come affermava lo scorso dicembre il presidente Ilva Bruno Ferrante: “Ricorreremo al tribunale del Riesame per evitare il danno derivante dalla mancata consegna dei prodotti già ordinati e non rimpiazzabili in alcun modo”.
Che l’Ilva sia in caduta in una clamorosa contraddizione, lo dimostra anche la polemica sull’effettivo valore del milione e 700.000 tonnellate di acciaio conteso. Secondo i custodi il controvalore della merce sequestrata è pari a 796,768 milioni di euro, ma, si afferma nell’esposto dell’azienda, “non è così: perché o quel controvalore è individuato al ribasso, oppure esso non è raggiungibile se non all’esito di libere trattative, autonomamente condotte dall’Ilva stessa nei tempi più opportuni”, cosa che però l’ordinanza del gip vieta categoricamente. E’ “l’impresa – si sostiene sempre nell’esposto – ad esercitare il diritto di convertire il prodotto in controvalore, e ciò secondo variabili liberamente scelte e non coercibili, neppure in ragione di un eventuale provvedimento di sequestro”. Se tutto questo è vero, allora è incredibilmente falsa la tesi sostenuta da sempre dall’azienda, secondo cui il valore della merce sequestrata ammonti ad 1 miliardo di euro. Se infatti le “libere trattative” devono essere ancora intavolate, come ha fatto l’azienda a stabilire che il valore di quella merce fosse esattamente di 1 miliardo di euro già dallo scorso novembre?
E come ha fatto l’azienda a sostenere che quel miliardo sarebbe servito a pagare gli stipendi ai lavoratori e ad ottemperare le prescrizioni dell’AIA, visto che i mesi di dicembre e gennaio sono stati regolarmente retribuiti e nella relazione del 23 gennaio presentato al ministero dell’Ambiente si sostiene di aver già iniziato ad ottemperare a tutte le prescrizioni presenti nell’AIA rilasciata lo scorso 26 ottobre? Inoltre, ricordiamo bene come l’11 dicembre scorso, l’Ilva minacciava l’esubero di 1.400 lavoratori dell’area a freddo e la fermata a cascata di una serie di stabilimenti in Italia (Genova e Novi Ligure) e in Europa. Motivo? “Mancando la disponibilità di prodotti finiti e semilavorati (coils neri, lamiere e bramme) verrà del tutto interrotta la lavorazione verticalizzata a Taranto e negli altri stabilimenti ILVA e sarà necessario ricostituire da zero un nuovo parco prodotti lavorati e semilavorati”.
Nel ricorso viene addirittura contestato il concetto di deperibilità dell’acciaio sequestrato, evidenziato dai custodi nella relazione rilasciata ai pm lo scorso gennaio – e recepito dal gip – come un rischio che può deprezzare la merce e quindi arrecare danno all’azienda. Rischio che ha indotto i magistrati ad accelerare la vendita, anche se la Corte Costituzionale deve ancora pronunciarsi sulla legittimità o meno dei ricorsi presentati dal gip e dal tribunale dell’appello sulla costituzionalità della legge 231 (la Consulta si riunirà il prossimo 9 aprile).
“Bramme a laminati d’acciaio – si legge sempre nell’esposto – si pongono certamente tra i beni la cui astratta deperibilità è la meno attuale e concreta tant’è che le bramme sono insensibili al tempo, i coils e derivati sono soggetti a trattamenti chimici che ne riducono l’ossidazione, le lamiere da treno vengono stoccare anche per più di due anni, i laminati a freddo sono imballati con apposite modalità protettive”. C’è quindi “totale mancanza di motivazione sulla concreta natura dei prodotti e dei pretesi pericoli di alterazione”.
Ed allora per quale motivo sempre lo scorso dicembre, era la stessa azienda a sostenere che “il danno relativo all’eventuale smaltimento di tali prodotti che, l’azienda ricorda, sono prodotti deteriorabili”? Inoltre, l’azienda dovrebbe essere “contenta” di poter tornare a disporre dei magazzini e delle aree degli sporgenti del porto in cui opera, visto che per mesi ha lamentato l’impossibilità di far lavorare l’area a freddo dello stabilimento per via della mancanza di “spazio”.
Lasciando così che l’acciaio prodotto dall’area a caldo venisse mandato per la lavorazione a freddo direttamente a Genova e Novi Ligure. Invero, ciò che proprio l’Ilva non digerisce è il fatto di non poter disporre degli 800 milioni di euro derivanti dalla vendita dell’acciaio sequestrato. L’azienda vorrebbe infatti entrare in possesso delle risorse in questione perché “potrebbero essere più correttamente utilizzate nell’interesse dei cittadini come l’attuazione dell’AIA” (tesi sostenuta anche dal ministro Clini). Una teoria del tutto inaccettabile, visto che nessuno potrebbe controllare che quegli 800 milioni siano realmente veicolati dall’azienda a tale destinazione. Delle due, l’una quindi: o l’Ilva ha sempre mentito, oppure l’esposto presentato dai legali dell’azienda sarà bocciato dai giudici del Riesame nell’arco di cinque minuti. Evento altamente probabile.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 12.03.2013)