Il Centro parlava di “stima dettagliata e approfondita che, se confermata dalle fonti ufficiali, scioglierebbe ogni dubbio sulla sostenibilità degli stessi e ben lontana dai 3/4 miliardi di euro sin qui stimati”. La previsione era stata redatta sulla base degli ultimi bilanci dell’azienda, visionando i quali si sarebbe valutato come il limite massimo delle risorse da impiegare per il risanamento degli impianti, debba essere contenuto entro i due miliardi di euro affinché non venga rotto “l’equilibrio necessario alla sopravvivenza aziendale”. Nella giornata di martedì però, nella presentazione del piano di ristrutturazione aziendale, l’Ilva ha dichiarato che il costo per mettere a norma lo stabilimento Ilva di Taranto sarà di 2 miliardi e 250 milioni.
Dunque, come sempre accade quando di mezzo c’è l’Ilva, ballano le cifre più disparate e la chiarezza non è mai di casa. Ma questa grande incertezza ha anche altre responsabilità. Perché l’AIA rilasciata all’Ilva dal ministero dell’Ambiente prevede che l’azienda debba ridurre le emissioni inquinanti applicando le migliori tecnologie disponibili, sulle quali la scelta finale, per legge, spetta all’azienda, soprattutto da un punto di vista economico.
Eppure, la perizia dei chimici aveva posto come parametro di valutazione di base, le migliori tecnologie in assoluto, previste peraltro dall’articolo 8 della normativa sull’AIA (d. lgs. 59/2005), che recita testualmente: “Se, a seguito di una valutazione dell’autorità competente, che tenga conto di tutte le emissioni coinvolte, risulta necessario applicare ad impianti, localizzati in una determinata area, misure più rigorose di quelle ottenibili con le migliori tecniche disponibili, al fine di assicurare in tale area il rispetto delle norme di qualità ambientale, l’autorità competente può prescrivere nelle autorizzazioni integrate ambientali misure supplementari particolari più rigorose, fatte salve le altre misure che possono essere adottate per rispettare le norme di qualità ambientale”. Ecco perché le cifre ballano senza criterio alcuno.
L’Ilva, dal canto suo, ha giustificato la riduzione dei costi sostenendo che i 3 miliardi e passa del ministro Clini erano una stima approssimativa, mentre ora si é entrati nella fase della quantificazione nella quale si stanno “definendo le progettazioni, stringendo i contatti con le imprese fornitrici e in diversi casi gli ordini di lavoro e di acquisto sono già partiti”. Ma le cifre potrebbero ancora oscillare di un 20%, sostiene sempre l’Ilva, perché una valutazione “definitiva potrà essere fatta una volta ricevute le offerte tecniche complete per tutte le attività previste”.
Come sia dunque possibile che l’Ilva, come sostenuto dalla stessa azienda lo scorso 23 gennaio, abbia già ottemperato al 65% delle prescrizioni dell’AIA, resta di fatto uno dei tanti misteri di questa vicenda. Altro aspetto poco chiaro, sono i singoli investimenti previsti dall’Ilva impianto per impianto. Ad esempio per le cokerie si parla di 860 milioni di euro: eppure, in un documento dello scorso anno dal titolo “Investimenti per l’ambiente”, in un’apposita tabella l’azienda sosteneva di aver investito nello stesso reparto dal 1995 al 2011, 480 milioni di euro. Dunque, per quello che è il reparto più inquinante del ciclo produttivo del siderurgico, secondo un piccolo calcolo, dal 1995 al 2015, il gruppo Riva avrà investito la “bellezza” di 1 miliardo di euro, ovvero 67 milioni ogni anno: eppure, sono completamente da rifare.
Così come appare quanto meno “sospetta” la cifra che servirà per coprire i parchi minerali: 300 milioni di euro, quando l’Enel di Brindisi ha investito 120 milioni di euro per coprire i due carbonili della centrale di Cerano, che hanno dimensioni decisamente minori rispetto a quelle dell’Ilva. Non solo. Perché nel documento presentato ieri dalla Riva Fire, al punto n.3.1 si parla del “livello degli investimenti degli anni precedenti”. I programmi di investimento attuati dall’Ilva SpA funzionali “all’efficienza impiantistica ed alla compatibilizzazione ambientale”, vengono riportati in una tabella in cui compaiono i dati consuntivi relativi agli investimenti attuati negli ultimi anni dall’azienda.
Come sempre siamo in presenza di una tabella che non dice assolutamente nulla da un punto di vista di concretezza degli interventi attuati sui vari impianti. Nello stesso tempo però, ci informa che su un presunto totale di quasi 2 miliardi di euro di investimenti dal 2007 al 30 settembre 2012, soltanto 433 milioni di euro sono serviti, come si evince dalla tabella, “di cui per ecologia”. I maligni ora penseranno: allora non è vero che hanno investito un miliardo di euro nella “ambientalizzazione” dell’Ilva.
E qui casca l’asino: perché nel documento dello scorso anno sugli investimenti per l’ambiente, c’è scritto che dal 1995 al 2006 sono stati effettuati investimenti per 689 milioni di euro. Ed ecco che, magicamente, i conti tornano. Chiosa finale. Più di qualcuno, a cominciare dai sindacati, si è accorto che mandare in cassa integrazione migliaia di operai sino al 2015, vorrà dire per l’Ilva un risparmi economico per centinaia di milioni di euro: secondo un calcolo forfettario, si tratta di oltre 800 milioni di euro. Che si accollerà lo Stato, ovvero i cittadini, anche di Taranto. Domanda: ma la cifra risparmiata all’Ilva non è la stessa a cui ammonterebbe il valore dell’acciaio sequestrato dalla Procura? E poi dicono che la matematica non è un’opinione.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 21.02.2013)
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