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L’Ilva dà i numeri: cassa per 6500 – A pagare sono i lavoratori

TARANTO – L’annuncio tanto temuto alla fine è arrivato. Ed è l’ennesima conferma di come l’Ilva abbia deciso che a pagare per l’azione della magistratura, che ha rotto le uova nel paniere al magico mondo messo in piedi dal ’95 dal gruppo Riva, siano ancora una volta i lavoratori. E ad effetto domino Taranto e la sua provincia. Perché il piano di ristrutturazione aziendale inviato ieri dall’Ilva ai sindacati, che prevede la richiesta di cassa integrazione guadagni straordinaria per 24 mesi (sino a tutto il 2015) fino ad un massimo di 6.417 operai che dovrebbe iniziare il 3 marzo, non significa altro che l’inizio di una fase di grande incertezza dove potrà succedere qualunque cosa. Il piano prevede che nella prima fase la richiesta per la cassa riguarderà 4.444 addetti, mentre nel secondo semestre del 2014, quando dovrebbe fermarsi per i lavori previsti dall’AIA l’altoforno 5 (il più grande d’Europa che contribuisce al 40% della produzione Ilva) si toccherà la cifra di 6.417.

Secondo il piano dell’azienda, saranno soprattutto le aree di laminazione a caldo e a freddo i reparti del siderurgico che reggeranno il peso maggiore della cassa integrazione. Questo, nel dettaglio, il numero dei lavoratori area per area: area ghisa 957; area acciaieria 940; area laminazione a cado/freddo 1.574; area tubifici/rivestimenti tubi 607; area servizi/staff 1.249; area manutenzioni centrali 1.090. La fermata degli impianti sarà invece totale e completa per l’intero periodo per lo stabilimento di Patrica nel Lazio e per il Centro Servizi di Torino.

A Patrica (Frosinone) saranno interessati dalla cigs 23 dipendenti, a Torino 67. Quanto alle altre unità produttive del gruppo – ovvero gli stabilimenti di Genova, Novi Ligure e Racconigi, il porto di Marghera e i Centri Servizi di Legnaro (Padova) e Paderno Dugnano (Milano) – l’azienda ha dichiarato che “ogni valutazione potrà essere effettuata a valle dell’eventuale influenza sulle specifiche attività dalle modificazioni degli assetti produttivi dello stabilimento ionico”. Se necessario però, l’azienda “attiverà procedure a livello territoriale per gestire eventuali ricadute occupazionali temporanee”.

Ma al di là dei freddi numeri, l’impressione è che l’Ilva abbia iniziato a mettere le mani avanti per non cadere indietro. Lo si deduce da una frase molto significativa presente nel documento consegnato ai sindacati: “Allo stato attuale non si ravvisano situazioni che potranno determinare esuberi di natura strutturale”. Cosa che potrebbe accadere nell’immediato futuro qualora la Corte Costituzionale dovesse dare ragione al gip Patrizia Todisco e al tribunale dell’Appello sui ricorsi presentati sulla legge 231 del 24 dicembre, la così detta “salva-Ilva”.

Ma l’Ilva è andata anche oltre. Perché nel documento di ieri ha dichiarato che la cassa integrazione si è resa necessaria per attuare le prescrizioni AIA entro il dicembre del 2015. “Entro il termine della cassa per ristrutturazione, terminati gli adempimenti chiesti dall’AIA – si legge nel documento – si perverrà gradualmente ai livelli produttivi programmati ed al richiamo in attività di tutto il personale sospeso”. L’assetto di marcia degli impianti dal 3 marzo al dicembre del 2015, stando a quanto affermato dall’azienda, vedrà una produzione giornaliera di circa 18mila tonnellate di acciaio nel periodo di fermata dell’altoforno 1 e di circa 10mila nel periodo di contemporanea fermata degli altiforni 1 e 5 (si andrà avanti con il 2 e il 4), a fronte delle 30mila tonnellate giorno producibili in pieno assetto produttivo. Nel documento l’Ilva conclude che “le fermate programmate produrranno una ridotta alimentazione dei reparti a valle dello stabilimento di Taranto e/o delle altre unità produttive”.

Nel piano di ristrutturazione aziendale presentato ieri, l’Ilva ha anche annunciato un investimento complessivo di 2 miliardi e 250 milioni di euro per gli interventi di risanamento in ottemperanza alle prescrizioni dell’AIA rilasciata dal ministero dell’Ambiente lo scorso 26 ottobre. Nel dettaglio si parla di 300 milioni per l’adeguamento dei parchi minerali, 400 per gli altiforni, 860 per la cokeria, 425 milioni di interventi generali, 210 per l’area agglomerazione e 55 per le acciaierie. Nel secondo semestre 2014 oltre alla fermata degli altiforni 1 e 5, si fermeranno le batterie coke 3, 4, 5, 6 e 11, l’acciaieria 1, il treno nastri 1 e il treno lamiere.

Numeri, dunque. Che da soli dicono tutto e niente. Anche perché il piano di ristrutturazione presentato ieri, non è stato accompagnato dal tanto atteso piano industriale. Così come è altrettanto discutibile il voler mandare in cassa integrazione migliaia di lavoratori, quando l’azienda avrebbe potuto e dovuto scegliere la strada del contratto di solidarietà, che garantisce la presenza in fabbrica dei lavoratori da impiegare nel risanamento degli impianti attraverso la rotazione degli stessi, senza andare a penalizzare alcuni a discapito di altri.

Del resto, nell’ordinanza di sequestro preventivo dell’area a caldo dello scorso 25 luglio, il gip Todisco scriveva appunto che “per tutti gli aspetti amministrativi connessi alla gestione degli impianti sottoposti a sequestro e del personale addetto agli stessi, si dovranno esperire tutte le possibilità di ricollocazione lavorativa, presso altri impianti e reparti dello stabilimento ovvero in altro modo”. E lo stesso Ferrante aveva promesso il ricollocamento all’interno dell’Ilva dei lavoratori che sarebbero finiti in cassa in questi mesi.

Ma il gioco è lo stesso da sempre. Ed anche un bambino ha capito che l’Ilva non presenterà alcun piano industriale sino al pronunciamento della Consulta. Soltanto dopo, forse, inizierà a valutare se con gli aiuti di Stato e soprattutto dell’Ue, sarà conveniente o meno salvare la produzione di acciaio in Italia oppure dichiarare concluso il suo percorso. E’ solo una questione di tempo. Poi la verità verrà finalmente a galla.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 20.02.2013)

 

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