Siderurgia, il gruppo Riva rinuncia o raddoppia?
TARANTO – La vicenda Ilva ha avuto il merito di mettere a nudo le clamorose carenze dell’Italia nel campo delle politiche industriali. Dove il settore siderurgico, pur essendone un perno, è stato colpevolmente e consapevolmente abbandonato, negli ultimi 20 anni, nelle mani di gruppi privati che hanno pensato unicamente al loro profitto. Ma chi pensa che il destino dell’industria siderurgica italiana dipenda unicamente dalle sorti dell’Ilva di Taranto, dimostra ancora una volta di avere del tutto una visione alquanto limitata.
Martedì scorso a Bruxelles, come abbiamo riportato in settimana, si è svolta la riunione di “alto livello per l’acciaio” a cui hanno partecipato rappresentanti dell’industria siderurgica europea – tra cui la stessa Ilva e Federacciai -, dei sindacati e alcuni ministri tra i quali il tedesco Philipp Roesler, il francese Arnaud Montebourg, il belga di Vallonia Jean Claude Marcourt, il lussemburghese Etrienne Schneider e lo spagnolo Luis Valero Arrtola. Le posizioni dei vari paesi in merito al rilancio del settore e al come contenere l’espansione di Cina, Russia, India e Brasile, sono state però differenti. Da una parte ci sono la maggioranza dei Paesi dell’Ue, tra cui l’Italia, che vogliono una politica europea di “sostegno” alla siderurgia; dall’altra ci sono Germania, Olanda e Finlandia che non vogliono interventi di aiuto specifici al settore. Cosa che invece soprattutto l’Italia e l’Ilva chiedono con grande insistenza dalla scorsa estate, per provare a riparare con qualche pezza a colori per coprire i danni immani procurati all’ambiente e alla salute dei cittadini, tentando allo stesso tempo di salvare il salvabile in termini di produzione.
Nello specifico, i motivi dei contrasti tra i paesi membri dell’Ue, sono essenzialmente due. Il primo riguarda il cambio euro/dollaro che appare una barriera difficilmente superabile per le esportazioni. Non per tutti però. La Germania infatti, che esporta impianti, tecnologie, macchinari e processi, risente di meno del differenziale di cambio, mentre l’Italia, che esporta prodotti di trasformazione, è più esposta al fattore prezzo: motivo per cui la Germania non ha alcun interesse nell’agevolarci. L’altro problema invece, riguarda l’oramai conclamata sovra-capacità produttiva dell’intera Ue. Molti analisti infatti, sostengono che l’Europa è destinata a produrre soltanto prodotti di alta qualità, perché a causa degli alti costi di energia, personale e logistica, non si potrà più competere con i paesi emergenti. Del resto, come abbiamo già avuto modo di evidenziare il mese scorso, il volume di produzione del 2012 per la siderurgia italiana si è chiuso con una flessione del 5,2% pari 27,2 milioni di tonnellate. Il “consumo apparente”, che è costruito dalla somma tra produzione interna e importazioni, è crollato del 20,4% rispetto al 2011: il che vuol dire che la richiesta interna è andata a picco e a salvare il settore dal tracollo sono state proprio le esportazioni. E le previsioni per il 2013 sono pressoché identiche.
Ma i limiti della siderurgia italiana, Ilva in primis, sono dovuti anche ad altri due fattori decisivi in un’epoca di grandi trasformazioni come quella attuale. Il primo è ovviamente dovuto alla vetusta situazione in cui versano gli impianti produttivi: l’Ilva ne è del resto un esempio più che concreto. Se da un alto India e Cina corrono continuando ad inquinare come e più dell’Ilva, è altrettanto vero che altrove in Europa hanno agito per tempo correndo ai ripari, pur restando competitivi sul mercato. In Italia invece, specialmente a Taranto, si è voluto far finta di non vedere rinviando il più possibile la delicata questione, per non andare ad intaccare gli interessi economici dei gruppi di potere. E qui troviamo il secondo fattore limitante sul mercato per il nostro paese: ovvero la gestione familiare delle imprese, marchio di fabbrica da sempre dell’economia italiana nel mondo.
Ad ammettere come ciò sia oramai un elemento penalizzante, è lo stesso Giovanni Arvedi, fondatore dell’omonimo gruppo che dal 1963 a Cremona produce tubi saldati in acciaio. Arvedi sostiene che la questione della ristrutturazione delle aziende del settore è oramai cruciale, ma afferma anche che “l’impronta familiare, con tutto il bene che significa in termini di impegno e continuità, rimane ancora un fattore di freno a un processo necessario. La fusione tra aziende familiari non è ancor oggi sul tavolo, se ne parla ma non mi pare matura sebbene pressata dalla riorganizzazione del settore, con il problema implicito e pressante del sovra-dimensionamento produttivo”.
La ristrutturazione è ad esempio l’unica via per provare salvare le Acciaierie di Terni o il Gruppo Lucchini di Piombino. Del resto, non è un caso se appena un mese fa anche il presidente Ilva Bruno Ferrante, ha ipotizzato l’ingresso di nuovi soci nella gestione dell’Ilva Spa. Ma quell’annuncio sa molto più di bluff che di ipotesi concreta: tutti sanno, dal gruppo Arvedi al governo passando per Federacciai e Confindustria, che l’Ilva ha una sua fetta importante di mercato e una solidissima situazione finanziaria alle spalle, anche se i capitali sono ben al sicuro nelle casseforti delle holding in Lussemburgo. Al massimo, quindi, sarebbe proprio il gruppo Riva a “mangiarsi” i pesci più piccoli presenti in Italia, in una specie di selezione “darwiniana” all’interno della siderurgia italiana. Uno dei tanti motivi per cui per le istituzioni e sindacati l’Ilva “deve” essere salvata. Ad ogni costo.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 19.02.13)