Probabilmente già domani a Milano, sede del gruppo Riva a cui l’Ilva Spa fa capo, ci sarà un confronto tra avvocati e azienda per decidere sul come muoversi. Ma il ricorso al Tribunale del Riesame contro il provvedimento del gip è da ritenersi praticamente scontato. Evento questo che segnerebbe un nuovo, triste passaggio nell’infinita vicenda giudiziaria, dovuta soprattutto all’azione di disturbo intrapresa da azienda e governo. Che l’intento dell’Ilva sia quello di sfidare nuovamente il gip Todisco, lo si è intuito chiaramente dalla nota dell’azienda, che venerdì aveva definito l’azione del giudice “illegittima” e con diversi “vizi di diritto”. Tesi che come abbiamo già avuto modo di commentare su queste colonne anche riportando ampi stralci dell’ultima ordinanza del gip, appare del tutto priva di fondamento logico e legale. L’ennesima “questione di principio” di un gruppo che dalla scorsa estate persegue un unico obiettivo: lasciare per strada il minimo indispensabile in fatto di beni liquidi e materiali.
Ciò che però più sorprende, ancora una volta, è il continuo contraddirsi di un’azienda che è capace, nel giro di un paio di mesi, di affermare tutto e il contrario di tutto pur di tornare allo stato di totale libertà e impunità in cui ha operato sino allo scorso 25 luglio. Del resto, l’ultima presa di posizione dell’azienda è figlia della stessa mentalità di sempre: millantare che tutto vada bene, minacciare, ricattare, spargere terrore sociale, tranquillizzare, sorridere: un ciclo continuo e vizioso a cui siamo abituati ad assistere da anni. Sino a qualche settimana fa infatti, il presidente Ilva Bruno Ferrante, eravamo all’8 gennaio, in merito all’acciaio sequestrato affermava che “va da sé che lo sblocco della merce è a questo punto imprescindibile per continuare la vita aziendale che è gravemente danneggiata dai provvedimenti della magistratura”.
L’Ilva ha infatti sempre sostenuto che soltanto con l’ottenimento del ricavato della merce sequestrata avrebbe potuto pagare gli stipendi ai lavoratori ed ottemperare alle prescrizioni dell’AIA. Ciò nonostante, l’azienda ha regolarmente pagato gli stipendi di gennaio e ha consegnato, lo scorso 23 gennaio al Ministro dell’Ambiente Corrado Clini in “visita istituzionale a Taranto”, una relazione nella quale affermava di aver ottemperato il 65% delle prescrizioni AIA: con quali soldi non è dato sapere. Nel mese di dicembre invece, esattamente l’11 dicembre, l’Ilva annunciava addirittura l’esubero di 1.400 lavoratori dell’area a freddo e la fermata a cascata di una serie di stabilimenti in Italia (Genova e Novi Ligure) e in Europa. Motivo? “Mancando la disponibilità di prodotti finiti e semilavorati (coils neri, lamiere e bramme) verrà del tutto interrotta la lavorazione verticalizzata a Taranto e negli altri stabilimenti ILVA e sarà necessario ricostituire da zero un nuovo parco prodotti lavorati e semilavorati”.
Davanti ad una “devastazione” sociale e lavorativa del genere, sconcerta che a metà febbraio, a due mesi da quell’annuncio, la stessa Ilva lamenti la velocità con cui il gip ha deciso la vendita del materiale sotto sequestro, visto che “é in arrivo il pronunciamento della Corte Costituzionale sulla legge 231 dello scorso 24 dicembre che autorizza l’azienda a produrre e a commercializzare i beni prodotti anche prima del decreto 171”. Non solo. Perché l’azienda dovrebbe essere “contenta” di poter tornare a disporre dei magazzini e delle aree degli sporgenti del porto in cui opera, visto che negli ultimi mesi ha continuamente lamentato l’impossibilità di far lavorare l’area a freddo dello stabilimento per via della mancanza di “spazio”. Lasciando così che l’acciaio prodotto dall’area a caldo venisse mandato per la lavorazione a freddo direttamente a Genova e Novi Ligure, cosa che ha comportato l’improvviso spegnimento dei fuochi di protesta dei lavoratori liguri. Ma le contraddizioni non finiscono di certo qui.
Sempre lo scorso dicembre infatti, il presidente Ferrante affermava che “naturalmente l’azienda ricorrerà al Tribunale del Riesame confidando che la situazione possa essere sbloccata al più presto per evitare oltre al danno derivante dalla mancata consegna dei prodotti già ordinati e non rimpiazzabili in alcun modo”. Oggi però, dopo la decisione del gip, l’azienda non pare più avere la fretta di allora nel consegnare il materiale ai committenti. Non solo. Perché oltre al prossimo ricorso al Riesame, l’azienda sembra intenzionata ad impugnare la relazione dei custodi sul rischio deteriorabilità delle merci sequestrate, e quindi sulla relativa perdita di valore economico, fattore che ha spinto la Procura e il gip ad accelerare la vendita. I custodi, incaricati di redigere una perizia tecnica, hanno infatti scritto che “la giacenza per medi lunghi periodi comporta una sostanziale perdita di qualità, per esempio la finitura dello strato superficiale del prodotto, una sensibilizzazione alla corrosione, la possibilità di generazione di anomalie con relative conseguenze sulla perdita di valore”.
L’Ilva invece, è pronta a contestare questo rischio sul piano immediato, sostenendo che l’acciaio é stato equiparato alle derrate alimentari mentre i suoi tempi di deteriorabilità sarebbero molto più lunghi. Eppure, sempre lo scorso dicembre, era la stessa azienda a sostenere che “il danno relativo all’eventuale smaltimento di tali prodotti che, l’azienda ricorda, sono prodotti deteriorabili”. Oggi, invece, la deteriorabilità dei prodotti si sarebbe improvvisamente “allungata” nel tempo. In ultimo, come già sottolineato nel weekend, ciò che proprio non scende giù all’Ilva è il fatto di non poter disporre degli 800 milioni di euro derivante dalla vendita dell’acciaio sequestrato. L’azienda vorrebbe infatti entrare in possesso delle risorse in questione perché, invece di farle restare congelate, “potrebbero essere più correttamente utilizzate nell’interesse dei cittadini come l’attuazione dell’AIA” (tesi peraltro sostenuta anche dal ministro Clini).
Una tesi inaccettabile, visto che nessuno crede al fatto che quegli 800 milioni sarebbero veicolati dall’azienda a tale destinazione. Basti ricordare ancora una volta che, stando agli ultimi bilanci conosciuti, al 31 dicembre del 2011 l’Ilva aveva debiti totali per 2,9 miliardi di euro, a fronte di un capitale netto di 2,3 miliardi. Debiti verso le banche (718 milioni), verso i fornitori (952 milioni) e verso altre società del gruppo. Riva Fire, invece, aveva debiti bancari per circa 2 miliardi di euro, due volte e mezzo il patrimonio netto (812 milioni). Stando a questa infinita serie di contraddizioni e ai dati sopra citati, annettendo a tutto ciò l’assenza a tutt’oggi di un piano tecnico sull’attuazione della prescrizioni AIA e un piano industriale che certifichi una volta e per tutte la reale volontà del gruppo Riva, qualcuno dovrebbe trovare anche solo un motivo per cui Taranto e i tarantini debbano continuare ad ascoltare le bugie continue e reiterate di azienda, istituzioni, enti locali e sindacati.
Chiosa finale sull’incidente avvenuto sabato mattina all’altoforno 5, il totem sui cui poggia il 40% della produzione del siderurgico. Dal verificarsi del fenomeno emissivo della durata di un minuto all’arrivo dei tecnici dell’ARPA da Bari, sono passate oltre tre ore. Un lasso di tempo inaccettabile e vergognoso. E così da un lato l’azienda afferma che non si è verificata “nessuna conseguenza per le persone e gli impianti e non si registrano emissioni di sostanze pericolose”, dall’altro l’ARPA sostiene che “dall’analisi dei dati delle centraline interpellate non è venuto fuori alcun sforamento emissivo”. Ma di quali centraline parliamo? Quelle del rione Tamburi? O quelle perimetrali che l’azienda avrebbe da tempo dovuto installare e che nessuno è in grado di dire se esistano e siano funzionanti?
Ciò detto, finché resteremo in assenza di un campionamento continuo dei fenomeni emissivi installato su ogni camino e all’interno di ogni area e impianto, nessuno potrà affermare con assoluto rigore scientifico l’assenza di pericoli per l’ambiente e la salute dei cittadini e il reale contenuto delle emissioni convogliate, diffuse o fuggitive che siano. Ad un’azienda che ancora opera in questo modo (con gli attuali proprietari ed ex responsabili del siderurgico ai domiciliari, in carcere o trattenuti all’estero), sono state concesse due AIA nel giro di un anno, è stata redatta una legge ad hoc votata dal 90% dei parlamentari italiani, si promettono aiuti di Stato e da parte della Banca Europea degli Investimenti. E chissà a cosa ancora saremo costretti ad assistere.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 18.02.12013)
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