La Mittal rilevò nel 2006 la franco-lussemburghese Arcelor ma, guarda caso, non sta rispettando gli accordi sottoscritti al momento dell’acquisizione, che comprendevano il mantenimento degli altiforni francesi a Florange, dopo la chiusura dell’impianto di Gandrange. Non è un caso, dunque, se anche in Francia stiano pensando a nazionalizzare l’impianto siderurgico pur di salvare migliaia di posti di lavoro. ArcelorMittal ha peraltro chiuso il quarto trimestre del 2012 in rosso di 3,99 miliardi di dollari. Sui conti del primo produttore al mondo d’acciaio ha pesato anche una svalutazione di 4,3 miliardi di dollari sulle attività europee. Durante l’intero 2012 ArcelorMittal ha registrato una perdita di 3,73 miliardi di dollari. Per il 2013 però, ArcelorMittal si attende un leggero miglioramento della situazione, anche grazie ad un aumento delle consegne di acciaio del 2-3%.
Intanto, nella riunione di ieri Tajani, dopo aver ricordato che entro giugno presenterà il piano d’azione europeo per l’industria, ha illustrato il lavoro che la Commissione sta facendo a sostegno del settore. Sottolineando l’inserimento della siderurgia tra i settori che possono avere aiuti di stato per il rimborso dell’80% delle quote per le emissioni di CO2 (cosa questa che interessa moltissimo il gruppo Riva). Martedì prossimo invece, si riunirà a Bruxelles il gruppo di “alto livello per l’acciaio” cui parteciperanno rappresentanti dell’industria – tra cui la stessa Ilva e Federacciai – e dei sindacati con alcuni ministri tra i quali il tedesco Philipp Roesler, il francese Arnaud Montebourg, il belga di Vallonia Jean Claude Marcourt, il lussemburghese Etrienne Schneider e lo spagnolo Luis Valero Arrtola.
Una riunione che interessa molto da vicino il gruppo Riva. Del resto, nel pieno della vicenda Ilva la scorsa estate, fu lo stesso Tajani a dichiarare come l’azienda potrebbe ottenere finanziamenti dalla Unione Europea, utilizzando altri programmi della Commissione europea – come il Fondo sociale e Horizon 2020 per l’innovazione e la ricerca. Poi, lo scorso dicembre, scoprimmo e denunciammo che il 16 dicembre del 2010 la BEI (Banca Europea Investimenti) accordò un prestito di ben 400 milioni di euro all’Ilva: 200 milioni subito e ulteriori 200 concessi il 3 febbraio 2012. Finanziamenti che furono ben scorporati: 140 alla Ilva S.p.A. e 60 alla Rive Fire S.p.A in entrambi i casi. Ancora oggi attendiamo di conoscere a cosa sono effettivamente serviti quei soldi. Non è un caso se tra il 2008 e il 2009, quando entrò nelle Commissione Barroso I, di cui è stato uno dei 5 vicepresidenti, assumendo il ruolo di Commissario europeo per i trasporti si schierò a favore del piano di salvataggio di Alitalia attraverso l’inserimento di capitali privati nella compagnia aerea. E proprio in quel periodo la FIRE di Emilio Riva entrò nell’azionariato di Alitalia, in sostituzione di Gianluigi Aponte, investendo 120 milioni di euro.
Ciò detto, al momento la verità è una sola: che ad essere in crisi è l’intero mercato dell’acciaio europeo. In Belgio, sempre la Arcelormittal, ha annunciato in questi giorni nuove chiusure di impianti e 1.300 licenziamenti dopo gli smantellamenti in Francia. E come sempre, sono i dati nudi e crudi a parlare in maniera inequivocabile: tra il 2003 e il 2011 la produzione di acciaio in Cina è cresciuta del 208%, mentre in Europa è calata dell’8% (dati del “Sole24Ore”). I primi dieci produttori di acciaio del mondo sono asiatici, di cui sei cinesi. Arcelormittal, il numero uno, ha sì sede legale in Lussemburgo (vi ricorda per caso qualcuno?) ma è indiano. Il primo nome europeo in classifica è la Thyssen-Krupp, simbolo dell’industrializzazione tedesca, al 19° posto. Ciò detto, vorremmo sapere cosa pensano al riguardo tutti coloro i quali sostengono da mesi la tesi secondo cui con la chiusura dell’Ilva ne guadagnerebbero i competitor europei.
Stando a questi dati, è evidente si tratti dell’ennesima bufala che ci propinano. La verità è che in molti continuano ad ostinarsi nel non voler accettare la realtà: è il sistema economico europeo basato sull’industrializzazione di massa ad aver fallito. Negli anni ’90 si cercò la prima via di fuga: vendere ai privati i grandi siti industriali. Negli ultimi anni, complice la crisi economica, i privati hanno provato ad imboccare la drammatica via d’uscita delle delocalizzazioni nei paesi dell’Est, per risparmiare liquidità nel pagamento degli stipendi e per evitare di ammodernare impianti industriali oramai vetusti. Non è un caso del resto se chi si è salvato da questo stillicidio, ha agito per tempo. O si sono dismessi gli impianti per diversificare l’economia e puntare su tutt’altro, oppure si sono pianificati interventi di risanamento e ristrutturazione seri e costanti per decenni. Nulla di tutto questo è stato fatto in Italia. Così come a Taranto né dall’Ilva né dallo Stato. Sino a giungere agli eventi che oramai tutti conosciamo. Le vie di fuga sono oramai tutte chiuse. E il buon Tajani ci sembra un don Chisciotte al contrario, ultimo baluardo di un mondo destinato inevitabilmente all’estinzione.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 07.02.13)
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