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Ilva, riparte l’area a freddo

TARANTO – Riprenderà a lavorare questa mattina, come preannunciato nei giorni scorsi, l’area a freddo dell’Ilva dopo il blocco imposto a fine novembre dall’azienda come ritorsione al sequestro delle merci di fine novembre disposto dalla magistratura. La decisione venne camuffata dall’azienda sostenendo che dipendesse in primis per la crisi del mercato, con la conseguenza di assenza di commesse. Eppure, all’epoca dei fatti, in pochi si chiesero come mai l’Ilva fermasse l’area a freddo pur continuando a produrre acciaio con l’area a caldo.

Tutto e il contrario di tutto

Ciò detto, quest’oggi rientrerà a lavoro soltanto una parte dei 535 lavoratori previsti: fra questi, i manutentori, che hanno il compito di controllare e verificare gli impianti prima del loro definitivo riavvio. I primi impianti che torneranno in attività saranno il tubificio ERW, il laminatoio a freddo ed altri impianti minori. Il bello è che l’Ilva pare abbia deciso di rimettere in marcia l’area a freddo, in quanto sono in arrivo nuove commesse.

Dunque, facendo un piccolo riepilogo, nel giro di appena un paio di mesi l’azienda ha prima chiuso l’intera area a freddo annunciando 1400 esuberi (che si sarebbero dovuti sommare ad altri 1200 lavoratori già in cassa integrazione); subito dopo ha annunciato la chiusura degli stabilimenti di Novi Ligure, Genova Racconigi e Salerno, dell’Hellenic Steel di Salonicco, della Tunisacier di Tunisi e di diversi stabilimenti presenti in Francia nonché tutti i centri di servizio Ilva, quali Torino Milano e Padova, nonché gli impianti marittimi di Marghera e Genova, annunciando altri 2500 esuberi.

In un secondo momento ha fatto in modo che si diffondesse la notizia secondo cui, proprio a causa del sequestro della magistratura, erano andate perse due commesse milionarie (una americana e l’altra irachena); dopo di che ha pensato bene di blindare l’accesso ai reparti dell’area a freddo agli operai attraverso lucchetti e travi di legno; poi ha annunciato il rischio del mancato pagamento dello stipendio di gennaio e la possibile richiesta di ben 8000 esuberi; infine, negli ultimi giorni, non solo ha annunciato la regolare retribuzione degli emolumenti previsti per i lavoratori, ma addirittura la riapertura di alcuni reparti dell’area a freddo grazie all’arrivo di nuove commesse. Non c’è che dire: un’azienda dalle idee non chiare, ma chiarissime.

L’ennesima istanza inutile e contraddittoria

E così, tanto per restare in tema e non smentirsi mai, si è appreso che nei giorni scorsi l’azienda ha presentato una nuova istanza, questa volta indirizzata ai custodi-amministratori giudiziari nominati dalla Procura della Repubblica di Taranto, in cui si chiede di poter commercializzare una parte (42mila tonnellate dal valore 32 milioni di euro su 1 milione e 700 mila tonnellate) di prodotti finiti e semilavorati, sequestrati dalla Guardia di Finanza il 26 novembre scorso e fermi sulle banchine e nei depositi dell’azienda.

Ricordiamo che il sequestro della merce fu chiesto dalla Procura e disposto dal gip del Tribunale Patrizia Todisco, perché prodotta nel periodo tra il 26 luglio, giorno del sequestro preventivo degli impianti dell’area a caldo, e il 26 novembre e, a seguire fino al 3 dicembre scorso, quando venne approvato il decreto legge 207 da parte del Consiglio dei Ministri, che consentiva la “ripresa” della produzione e della commercializzazione dei prodotti (anche quelli precedenti all’attuazione del decreto, dando così un effetto retroattivo ad una legge, cosa mai vista prima d’ora). Domanda: ma non è stato il presidente Bruno Ferrante a sostenere pochi giorni fa che se l’Ilva ha prodotto quel materiale è stata soltanto colpa dei custodi che avrebbero dovuto impedirlo? Non solo. Perché in questa nuova istanza l’azienda sostiene un’altra delle sue idee sorprendenti: ovvero che la Guardia di Finanza quel giorno di novembre si sbagliò.

In pratica secondo la tesi dell’Ilva, quando i finanzieri si recarono nell’azienda per sequestrare i prodotti semilavorati e finiti, per lo più tubi già venduti a ditte estere, non avrebbero operato alcuna distinzione tra la produzione precedente al sequestro del 26 luglio e quella successiva. Quindi le 42mila tonnellate che ora l’azienda vorrebbe nuovamente indietro, non sarebbero corpo del reato. Ma se così fosse, un’istanza del genere l’Ilva avrebbe dovuto presentarla immediatamente e non certamente dopo due mesi, una volta che tutti i tentativi per riottenere indietro quella merce sono miseramente falliti. Così come stentiamo a credere che la Guardia di Finanza possa operare in modo tale da rischiare di compromettere il lavoro di un’intera Procura.

Per non parlare del fatto che i legali dell’Ilva dovrebbero sapere che oggi i custodi giudiziari non hanno alcun potere decisionale, visto il ricorso alla Corte Costituzionale avanzato dalla Procura in merito alla legge 231, la così detta ‘salva-Ilva’. Sulla 231 pende il giudizio di legittimità costituzionale chiesto alla Consulta dal gip e dal Tribunale dell’appello cautelare, mentre la Procura ha sollevato un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, sempre davanti alla Corte Costituzionale. E fino a quando la Consulta non si sarà espressa, tutto resterà bloccato. Infine, sempre nell’istanza presentata dall’Ilva si legge come la stessa azienda ammette che il valore della merce sequestrata non è di 1 miliardo di euro, bensì di poco inferiore ai 700 milioni di euro. Del resto si sa, la verità non è mai stata una peculiarità della gestione aziendale della famiglia Riva.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 04.02.2013)

 

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