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Ilva, il passo del gambero

TARANTO – E’ davvero stupefacente. Pensavamo che con l’inchiesta della magistratura, lo scandalo delle intercettazioni, gli arresti, le perizie chimica ed epidemiologica, ben due sequestri (degli impianti dell’area a caldo prima e di coils e lamiere dopo), una nuova Aia (visto che la prima era talmente impresentabile che è stato necessario avviare in tutta fretta un suo riesame), un decreto che introduce per la prima volta l’effetto della retroattività ad una legge che viene votata dal Parlamento italiano e che ora dovrà passare sotto il giudizio della Corte Costituzionale, avessimo visto tutto o quasi sulla vicenda Ilva. Ed invece, ancora una volta, abbiamo avuto troppa fiducia.

Altri 603 lavoratori in cassa: il balletto dei numeri

Sono 603 i lavoratori per cui l’Ilva chiederà la cassa integrazione in deroga a zero ore al Ministero del Lavoro, da cui si attende una risposta la prossima settimana. I lavoratori coinvolti si aggiungono ai 790 per cui l’azienda ha coperto a dicembre con proprie spese la cassa la cui richiesta venne bocciata dalla Regione Puglia. Saranno interessati 1243 operai, 90 impiegati e 60 intermedi. Gli addetti nelle relative aree sono così suddivisi: 110 negli altiforni, 170 in cokerie, 245 in acciaierie, 603 in laminazione a freddo, 142 tubificio in ERW, 57 in finitura nastri, 42 in Qualità Laminatoi-Tubifici, 24 in altri magazzini. In tutto, dunque, la cassa riguarderà 1393 lavoratori. L’Ilva prevede anche di attuare una rotazione, laddove possibile, come spiegato nella lettera inviata al ministero del Lavoro, alla Regione Puglia, ai sindacati metalmeccanici e a Confindustria.

“Per le posizioni lavorative oggetto di sospensione, ove ricoperte da lavoratori tra di essi fungibili per inquadramento e professionalità ed in numero eccedente le unità sospese, la società procede ad attivare rotazione sistematica compatibilmente con le esigenze tecnico-produttive”. Di contro, rientreranno al lavoro 535 unità: 360 nell’area di laminazione, 120 al tubificio ERW, 40 all’ex Sidercomit e 15 al “Rigenerato”. In particolare per il laminatoio a freddo ripartiranno questi impianti: zincatura 2 a 20 turni di lavoro, “Decappaggio” a 10 turni per 2 settimane, “Decatreno” 10 turni per 3 settimane. Insomma, una specie di valzer tra chi entra ed esce. Con i lavoratori costretti, gioco forza, ad interpretare il ruolo di protagonisti.

Resta invece aperto il confronto per ricollocare i cassintegrati a partire da quelli del Treno Nastri 1 per i quali si richiede la rotazione col personale del Treno Nastri 2. L’Ilva ha inoltre fatto qualche piccolo calcolo: a gennaio 2013 il siderurgico aveva una forza lavoro di 11.457 unità, di cui 2398 nell’area ghisa, 2122 nell’area acciaieria, 1959 nell’area di laminazione caldo-freddo, 613 nell’area tubifici e rivestimenti tubi, 2554 nell’area servizi e staff e 1820 nell’area manutenzioni centrali. Gli operai sono 9206, gli impiegati 1272, gli intermedi 868 – figura intermedia tra operai e impiegati – i quadri 93 e i dirigenti 18.

“Costretti alla cassa”

Ufficialmente, il motivo per cui l’Ilva ha deciso di ricorrere alla cassa integrazione, è duplice: da un lato l’applicazione delle prescrizioni AIA per gli impianti dell’area a caldo con la fermata di AFO 1 e le batterie 3-4-5-6, dall’altro gli effetti del sequestro del prodotto della magistratura per l’area a freddo. Questa la tesi sostenuta nell’incontro di ieri fra le segreterie sindacali e Adolfo Buffo, direttore dello stabilimento, Gaetano Martino, responsabile delle relazioni industriali e Domenico Liurgo, responsabile delle relazioni istituzionali. E il bello è che i sindacati, alla linea aziendale, ci credono anche. Dimenticandosi che appena due settimane fa, la stessa azienda aveva sbarrato l’ingresso agli operai, chiudendo le entrare che portano ai reparti dell’area a freddo con lucchetti e transenne di legno. Area che fu chiusa per semplice ritorsione dopo la decisione della magistratura di sequestrare un milione e 700mila tonnellate di coils e lamiere, realizzate utilizzando gli impianti dell’area a caldo a fini produttivi, nonostante il sequestro e i sigilli della magistratura.

Del resto, dallo scorso 4 dicembre l’Ilva è autorizzata a produrre grazie al decreto legge 207: dunque, se l’area a caldo produce, può lavorare senza alcun problema l’area a freddo. Invece l’azienda, che tanto ama spargere terrore tra quegli operai che le hanno permesso di realizzare miliardi di profitto per anni e anni, preferisce spedire il materiale realizzato dall’area a caldo di Taranto direttamente agli impianti di lavorazione a freddo di Genova e Novi Ligure. Inoltre, prosegue il mistero sulle prescrizioni AIA sin qui realizzate. L’azienda ha fornito al ministero dell’Ambiente un documento in cui si afferma di aver già ottemperato al 65% delle richieste.

Stupefacente. Perché sino a pochi giorni fa, senza il rientro in possesso del materiale sequestrato dal valore stimato dall’azienda in un miliardo di euro, non si sarebbe potuto procedere proprio al rispetto delle misure AIA ed inoltre al pagamento degli stipendi di gennaio. Nelle ultime ore invece, l’azienda è quasi riuscita a mettersi in regola con quanto prescritto dal ministero e pagherà regolarmente gli stipendi di gennaio. Non solo: perché nell’incontro di ieri avrebbe informato i sindacati dell’esistenza di alcune commesse in attesa di realizzazione e di altre in arrivo. Ma non si era detto appena pochi giorni fa che l’Ilva aveva perso due commesse milionarie ordinate tempo addietro da USA e Iraq?

L’acquirente invisibile

La verità è che i termini del problema sono nuovamente cambiati. E’ bastato che si spargesse la voce di un gruppo straniero interessato ad investire capitali nella gestione del siderurgico tarantino, per dare il via all’ennesima bagarre da quattro soldi. Il gruppo Riva, da sempre, ha dimostrato di non avere alcuna intenzione a spendere un solo euro nel risanamento degli impianti: per questo, negli ultimi due mesi ha provato a giocare la carta del dissequestro del materiale prodotto, che avrebbe consentito all’azienda di recuperare all’incirca un miliardo di euro. Ma il tentativo è fallito: ed allora la strategia è cambiata ancora una volta. Adesso il gruppo Riva si dice disposto a dare il via ad una ricapitalizzazione. Attenzione, però: non certo attingendo dal tesoro di famiglia ben al sicuro nelle casseforti delle holding in Lussemburgo.

Come fare allora? In un primo momento si era tentata la strada che porta alla Cassa Depositi e Prestiti: ma in un momento come questo, un aiuto così sfacciato ai Riva da parte dello Stato non sarebbe stata una mossa delle migliori. Per questo, anche l’azienda da giovedì ha iniziato a considerare la possibilità di far entrare nella gestione dell’Ilva, nuovi indefiniti partner societari. Perché vogliono far credere che senza l’ausilio di nuova liquidità, l’azienda è impossibilitata a mantenere in vita il siderurgico tarantino e gli altri 18 impianti Ilva presenti in Italia. E così, nelle ultime ore, si è scatenata una nuova caccia al tesoro per individuare quale gruppo internazionale arriverà in soccorso dei Riva. Che in questo caso non uscirebbero un euro per quanto riguarda il risanamento degli impianti, pur restando in parte proprietari del siderurgico.

Oppure, in caso contrario, potrebbero disimpegnarsi dalla gestione del siderurgico senza colpo ferire. Nessuno però pare chiedersi quale gruppo internazionale dovrebbe accorrere in aiuto di un colosso concorrente sul mercato dell’acciaio. E perché mai dovrebbe investire miliardi di euro per il risanamento e la bonifica di impianti utilizzati per realizzare un profitto che non sarà certamente condiviso. Una storia che non regge. Per questo, tanto per non farsi mancare nulla, i sindacati hanno dapprima “ringraziato” per l’Ilva per aver evitato nuove ritorsioni sugli operai, per poi chiedere al governo di intervenire in maniera diretta: “si renda disponibile a forme di intervento pubblico di natura finanziaria, e favorendo la ricerca di possibili nuovi investitori allo scopo di accrescere il capitale della società”. Speriamo almeno che queste siano le comiche finali di una vicenda che sta assumendo giorno dopo giorno i contorni di una farsa senza precedenti.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 02.02.13)

 

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