Per sciogliere i quali, al momento, l’unica via è quella di chiarire la reale situazione finanziaria dell’azienda. Che non a caso da mesi è al centro delle indagini della Guardia di Finanza. Del resto, anche i muri sanno che il tesoro di famiglia è ben custodito all’estero, in alcune delle holding del gruppo Riva FIRE con sede in Lussemburgo e Olanda. I miliardi di euro che l’azienda (con l’ausilio di Confindustria, Federacciai e vari) afferma di aver reinvestito interamente nel processo produttivo e nell’ambientalizzazione della fabbrica, in realtà sono lì. Il “capitale” prodotto con il sacrificio di migliaia di operai e di un intero territorio in termini di salute e inquinamento ambientale. Sarebbe davvero singolare infatti che ad un’azienda che sostiene di aver investito oltre 4 miliardi di euro per ammodernare gli impianti e 1 miliardo di euro soltanto sull’ambiente, il ministero dell’Ambiente chieda un nuovo investimento pari ad altri 3-4 miliardi di euro per intervenire su impianti che in realtà dovrebbero già essere a norma.
Nonostante ciò, la domanda che da mesi governo, sindacati e istituzioni si pongono è la seguente: l’Ilva possiede le risorse finanziarie necessarie per rispettare le prescrizioni AIA e nello stesso tempo garantire la continuità produttiva e la vita dei 19 stabilimenti presenti in Italia a cominciare da quello di Taranto da cui dipendono tutti gli altri? Al momento pare proprio di no. Il problema è che nessuno si chiede come mai un’azienda che fattura da anni miliardi di euro affermi di essere in crisi di liquidità. Non solo. Perché la posizione dell’Ilva è quanto meno ambigua. Da un lato infatti l’azienda consegna un documento di 45 pagine al ministero dell’Ambiente, in cui afferma di aver già ottemperato al 65% delle prescrizioni dell’AIA dello scorso 26 ottobre. Sino all’altro giorno però, sempre la stessa azienda affermava che senza il dissequestro del materiale prodotto sino allo scorso 26 novembre, il cui valore per l’Ilva ammonterebbe ad 1 miliardo di euro, non sarebbe stato possibile rispettare i tempi previste della prescrizioni dell’AIA.
Dunque, delle due l’una: o l’azienda i soldi li ha e quindi in appena due mesi è stata capace di rispettare gran parte delle indicazioni del ministero dell’Ambiente, oppure quel documento è una bufala colossale (ma non per certa stampa che continua imperterrita a pubblicare qualunque cosa l’Ilva dica). Visto che peraltro proprio ieri, durante il vertice romano, Ferrante ha candidamente dichiarato che è ancora “allo studio un piano di attuazione dell’AIA, sulla tempistica e sulle previsioni”: ed allora quel 65% di prescrizioni rispettate a quale AIA fanno riferimento? A quella attuale o a quella del 2011 che conteneva 462 prescrizioni la maggior parte delle quali cucite su misura per le esigenze dell’Ilva? Mistero. Ma non finisce di certo qui. Perché la bufala assume proporzioni universali se a quel documento sommiamo la teoria secondo cui senza il famoso miliardo in ballo, l’Ilva sia praticamente a corto di liquidità.
Evidentemente però, l’Ilva è convinta di spuntarla o di essere credibile, se anche ieri il buon Ferrante ha proseguito su questa strada, tanto da arrivare ad ipotizzare una possibile ricapitalizzazione dell’azienda, dichiarando disponibilità “a valutare l’ingresso di nuovi soggetti”. Del resto è alquanto improbabile che le banche possano erogare nuovi prestiti ad un gruppo che deve saldare entro l’anno corrente quasi 3 miliardi di euro di debiti. Inoltre, pare tramontata anche l’ipotesi di cui parlammo lo scorso dicembre, in merito ad un prestito da parte della Cassa Depositi. Attenzione, però: perché tutto questo potrà avvenire soltanto se l’azienda avrà “riferimenti certi prima di fare investimenti”. Ecco confermato, dunque, quanto sosteniamo da tempo: l’Ilva non investirà un solo centesimo finché non si sarà espressa la Corte Costituzionale sui ricorsi avanzati dalla Procura di Taranto. Il rischio di iniziare i lavori di risanamento sugli impianti dell’area a caldo a fronte di un’eventuale vittoria dei magistrati tarantini alla Consulta, non è assolutamente accettabile.
Il gioco dialettico, infatti, è sin troppo semplice: “Non sappiamo se la legge che dobbiamo applicare è costituzionale o meno”. Ecco perché l’azienda ha legato i prossimi mesi alla vendita del milione e 700mila tonnellate sequestrate lo scorso novembre: quel miliardo infatti serviva, almeno nelle intenzioni, a tirare avanti sino al pronunciamento dei giudici della Corte Costituzionale. Tutto il resto, nel caso, si vedrà soltanto in seguito. A cominciare dal piano industriale che per il momento resterà una semplice chimera: al momento, dunque, l’azienda viaggia con il freno a mano tirato. Quanto meno, gli stipendi di gennaio non sono in discussione. Lo stesso Ferrante ha infatti assicurato ieri che il 12 febbraio saranno regolarmente erogati ai lavoratori gli emolumenti previsti. Domanda: non si era detto che senza quel miliardo sarebbero venuti meno i 75 milioni necessari al pagamento regolare degli stipendi? Mistero.
Intanto, su questo e su quanto discusso ieri a Roma si confronteranno questa mattina azienda e sindacati (Fiom, Fim e Uilm) in un incontro convocato dall’Ilva negli uffici della direzione. Nel quale l’azienda confermerà la riapertura di alcuni impianto dell’area a freddo: evento che, a detta di Ferrante, “farà piacere alle organizzazioni sindacali”. Ma al di là di quanto sopra, il problema dei problemi resta sempre lo stesso. E si basa su una semplice domanda: ma qualcuno ha chiesto al gruppo Riva se intende continuare a produrre acciaio a Taranto e in Italia? Perché tra milioni di parole inutili e vuote di significato, tutto poggia su questa semplicissima ma essenziale domanda.
Per quanto ci riguarda, sin dalla scorsa estate sosteniamo che il gruppo Riva ha un solo obiettivo da quando la magistratura ha rotto le uova nel paniere in cui tutti hanno mangiato per decenni: abbandonare la produzione dell’acciaio con il minor danno possibile per le proprie casse. Questi ultimi sei mesi infatti, hanno dimostrato soltanto una cosa: che l’Ilva continuerà a produrre soltanto e solo se gli si consentirà di farlo senza intoppi o investimenti che possano cambiare realmente l’attuale realtà degli impianti a ciclo integrale dell’area a caldo dello stabilimento tarantino. Il gioco, da sempre, è tutto lì.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 01.02.2013)
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