L’Ilva rischia di implodere – L’analisi del Centro Studi Siderweb
L’Ilva è un gigante d’acciaio con i piedi di argilla che rischia di implodere e accartocciarsi su se stesso. La situazione economica e finanziaria del gruppo Riva infatti, è una specie di rebus del quale ci stiamo occupando da diverso tempo. Azienda e governo, a tal proposito, continuano a sostenere che la sospensione del giudizio in merito all’istanza di dissequestro dei prodotti, vada ad aggravare una situazione già “compromessa” della società.
Sul piano economico, l’azienda sostiene che l’effetto del provvedimento blocca l’attività di tutti quegli impianti che lavorano i semilavorati prodotti dagli altiforni dello stabilimento di Taranto. Ovvero i famosi coils a caldo in parte utilizzati dall’area cosiddetta a freddo dello stesso stabilimento di Taranto e dagli altri stabilimenti del gruppo situati a Genova, Racconigi (CN), Salerno, Novi Ligure (AL), Patrica (FR), Salonicco (Grecia), Senas (Francia) e Biserta (Tunisia).
Ad effetto domino, il blocco dell’attività produttiva di questi stabilimenti, ricadrebbe sulle vendite dei vari distributori dei prodotti Ilva: i centri di servizio in Italia (a Torino, Paderno Dugnano, Legnaro e Marghera) e all’estero (Lione, Rouen e Chatillon Le Duc in Francia; Tunisi in Tunisia), magazzini di distribuzione (a Como, Lecco e Gallarate) e società (Celestri Srl in Italia), che fanno parte dello stesso gruppo; infine i tanti centri servizio e magazzini di altre società presenti in Italia, anche a causa della grande frammentazione della rete distributiva di prodotti siderurgici. Per il “Centro Studi Siderweb” che si occupa della siderurgia italiana, il blocco delle merci dell’Ilva significherà per tutti i centri che dipendono dall’acciaio prodotto a Taranto, doversi approvvigionare da altri produttori, prevalentemente esteri, con problemi di sovra costo, maggiori oneri finanziari connessi all’accorciamento delle dilazioni di pagamento e tempi più lunghi di consegna.
Tutto questo si scarica sugli utilizzatori finali in termini di maggiore rigidità e incertezza nelle consegne, tempi di pagamento più ridotti, quindi maggiori costi di approvvigionamento. Eppure, dallo scorso 5 dicembre l’Ilva è rientrata in possesso degli impianti dell’area a caldo e può produrre, movimentare e commercializzare l’acciaio realizzato senza alcuna restrizione. E all’interno dell’Ilva ci sono tantissimi spazi inutilizzati dove spostare il materiale sequestrato sino al pronunciamento finale della Consulta. Dunque, il problema non si capisce bene dove sia.
Il sequestro dei semilavorati prodotti dagli altiforni dell’Ilva di Taranto, sempre secondo il “Centro Studi Siderweb”, andrebbe ad impattare anche sull’attività degli stessi forni, in termini di riduzione dell’utilizzo della capacità produttiva, con effetti diretti sulla loro produttività e quindi sulla redditività della gestione industriale; sulle attività che gravitano intorno agli altiforni e agli altri stabilimenti produttivi che sono svolte da società del gruppo (Ilva Servizi Marittimi, Muzzana Trasporti, INNSE Cilindri, Sanac) e da imprese esterne. Ma la riduzione della capacità produttiva è prevista dall’AIA varata dal ministero dell’Ambiente, visto che è prevista l’alternanza nell’utilizzo degli altiforni per avviare i vari lavori di risanamento degli impianti. L’impatto complessivo sull’economia italiana può essere stimato in una percentuale dello 0,06% sul PIL nazionale (su queste colonne durante l’estate scrivemmo che l’impatto sarebbe stato dello 0,05% – ndr).
Per quanto attiene invece il piano finanziario, l’impatto del blocco delle merci, per un valore superiore a 1 miliardo di euro, equivale ad una riduzione di circa il 20% della liquidità annuale necessaria a pagare gli stipendi dei lavoratori e le forniture, con un peggioramento significativo della posizione finanziaria netta, già ampiamente negativa. Ma qualcuno dovrebbe spiegarci dove va a finire il restante 80%. Ciò costringe l’Ilva ad aumentare il ricorso al credito, con conseguente peggioramento dell’indice di indebitamento visto che i debiti finanziari complessivi sono prossimi ai 3 miliardi di euro, pari a 1,3 volte il capitale netto. Ma attenzione: perché solo il 25% dell’esposizione é nei confronti delle banche, perché il restante 75% riguarda debiti con altre società del Gruppo Riva. Ecco perché la riduzione della liquidità dell’Ilva rischia di ricadere più sul gruppo che sulle banche, con un effetto finanziario rilevante sulla capogruppo (l’Ilva SpA) e sulle altre società esposte nei confronti dell’Ilva. Il rischio è quindi di un effetto domino che potrebbe mettere alle corde, ben presto, tutto il Gruppo Riva.
G. Leone (TarantoOggi, 24.01.2013)