L’Ilva gioca con i sindacati
TARANTO – Doveva essere l’occasione per guardare negli occhi l’azienda e provare a recuperare un minimo di credibilità dopo anni di conniventi e colpevoli silenzi. Mettendo con le spalle al muro il gruppo Riva e chiamandolo una volta e per tutte alle sue responsabilità. Ma anche ieri a Roma, nella sede romanda dell’Ilva, in occasione del vertice con il presidente del Cda Bruno Ferrante i sindacati hanno preferito assecondare ancora una volta l’azienda. Che ha aperto l’incontro con il solito ritornello: “Il blocco dei prodotti arriva a rendere più drammatica la situazione che si trascina ormai da parecchi mesi e che ha creato non poche difficoltà all’azienda”. Come se il sequestro dello scorso 26 novembre fosse un “capriccio” della magistratura e non la conseguenza per aver infranto una disposizione dell’autorità giudiziaria.
Ma è chiaro che dopo esser stati conniventi anche in questo, i sindacati sono oggi costretti a sorvolare su questo “piccolo” particolare che però, allo stato dei fatti, è il nocciolo del problema. Ferrante, allora, preferisce subito mettere le cose in chiaro: “Se i prodotti di Taranto non dovessero essere dissequestrati, c’è purtroppo uno scenario inevitabile: il blocco degli stabilimenti siderurgici di Taranto, Genova e Novi Ligure”. Evento peraltro scontato e non da oggi. “La situazione di Taranto è drammatica. Stiamo lavorando in perdita. Con 17mila tonnellate al giorno di produzione di acciaio e tre soli altiforni in marcia, ma soprattutto senza la possibilità di fatturare quanto abbiamo già prodotto nei mesi scorsi, non c’è futuro per l’azienda”. Fatturare, dunque. Ma per fare cosa?
La risposta è in una nota ufficiale di ieri dell’Ilva. Che dopo mesi di minacce, ricorsi e rappresaglie contro gli operai, sostiene che “nell’auspicata ipotesi di un dissequestro dei prodotti lavorati e semilavorati, i proventi della commercializzazione verranno destinati come é ovvio che sia agli adempimenti previsti dall’AIA, al pagamento delle retribuzioni dei lavoratori e a quant’altro necessario per la sopravvivenza dell’azienda”. Eccolo il ricatto, per nulla velato, a magistratura e governo: quel miliardo ci serve per rispettare l’AIA e pagare i lavoratori. Ma è una minaccia debole, oramai non più credibile. Perché tale intento andava manifestato tempo addietro e non certo oggi dopo aver portato all’esasperazione una situazione già di per sé alquanto precaria. E lo dimostra quanto dichiara lo stesso Ferrante poco dopo: “Siamo un’azienda sana e robusta che può andare avanti con le sue forze”. Anche questa un’ovvietà, visti i miliardi di fatturato portati a casa dal gruppo Riva ogni anno.
Dunque, se l’azienda è sana e robusta e può camminare tranquillamente da sola, perché si continua a giudicare essenziale quel miliardo? Come fa un’azienda ad essere allo stesso tempo forte e sana economicamente e in grave stato di liquidità come dichiarato appena venerdì scorso a Roma dallo stesso Ferrante? E’ evidente che qualcosa non torna. Specialmente quando Ferrante afferma che “per far fronte agli ingenti investimenti prescritti dall’Autorizzazione integrata ambientale, l’Ilva ricorrerà al credito bancario, a tutti gli strumenti possibili, ma siamo disponibili anche a mettere come garanzia quote societarie”. Eppure, sempre pochi giorni fa, la stessa Ilva aveva dichiarato che le banche avevano chiuso i rubinetti: dov’è la verità, allora? Oramai non è più un segreto come l’azienda sia esposta per debiti ammontanti a 2,9 miliardi, anche nei confronti di diverse banche.
Inoltre, se si è forti e sani come si dice, perché non si presenta il famoso piano industriale (a cui pare che il direttore dello stabilimento Buffo stia dedicando tutto il suo tempo, a meno che non stia scrivendo le sue memorie)? E’ evidente, quindi, che l’Ilva consideri questa città come una colonia e i suoi cittadini semplici sudditi ignari e inconsapevoli di quanto accada e di come stiano realmente le cose. Ma a fronte di tutte queste contraddizioni, i sindacati restano a metà del guado oltre che eternamente divisi. Da un lato infatti c’è la Fiom, che attraverso il segretario nazionale Maurizio Landini torna a chiedere “un intervento dello Stato che é l’unico che può metterci la faccia”. Strano che la Fiom, dopo una legge finita alla Consulta, giudichi ancora oggi questo Stato come l’unico in grado di mettere la faccia in una questione così delicata. Così come continuare a sostenere questa ipotetica e utopistica nazionalizzazione dell’Ilva, appare più l’ultima àncora a cui appigliarsi piuttosto che un progetto economicamente realizzabile e sostenibile.
Ma sono ancora una volta la Fim e la Uilm a regalarci delle perle ineguagliabili del sindacalismo italiano di questi tempi. In una nota congiunta, sostengono che “Bruno Ferrante, presidente dell’Ilva, ci ha assicurato che la proprietà sta facendo tutto quello che è nelle proprie possibilità per garantire lo stipendio ai 16.000 addetti del gruppo siderurgico. Se non si sbloccano i prodotti lavorati tuttora sottoposti a sequestro a Taranto dal valore di un miliardo di euro, l’Ilva non sarà in condizione di attuare quanto previsto dall’AIA. Rispetto a questa attesa abbiamo sottolineato che l’Ilva continui a mantenere l’impegno su Taranto e chiesto al governo e alla magistratura di cessare il braccio di ferro in corso al fine di permettere proprio per il sito in questione la possibilità di continuare a produrre e ad applicare l’Autorizzazione integrata ambientale. Infine, al presidente del gruppo abbiamo chiesto precise garanzie per la tutela di corretti rapporti industriali, soprattutto a livello di comunicazione interna, e di garantire gli ‘standard’ di sicurezza per le strutture produttive e per chi lavora in Ilva”. Ulteriori commenti sono del tutto superflui.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 22.01.2013)