Il motivo del contendere è noto: lo scorso 26 novembre la Procura di Taranto, nell’ambito dell’inchiesta che vede i vertici del siderurgico indagati per disastro ambientale (Emilio e Nicola Riva sono ai domiciliari, mentre Fabio, vicepresidente di Riva Fire, è latitante ed inseguito da un mandato di cattura internazionale), ha sequestrato un milione e 700mila tonnellate tra coils e lamiere, dal valore di mercato di un miliardo e 200mila euro.
Per i magistrati tarantini quel materiale è corpo del reato perché frutto di attività illecita, in quanto prodotto tra il 26 luglio e il 26 novembre, nonostante fosse in atto il sequestro preventivo senza facoltà d’uso degli impianti dell’area a caldo del siderurgico ai fini dell’attività produttiva. Il governo ha però stabilito che l’azienda non solo dovesse rientrare in possesso degli impianti (sui quali è rimasto il sequestro poiché l’azienda non ha ricorso alla Cassazione contro i sigilli della Procura), ma che potesse movimentare e commercializzare i prodotti realizzati anche precedentemente il decreto, dando così un inedito effetto retroattivo alla legge.I magistrati hanno però intravisto gli estremi sia per un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato che diversi profili di incostituzionalità della legge: per questo, con l’appoggio del tribunale del Riesame, è ricorsa alla Corte Costituzionale affinché l’ultima parola sulla vicenda spetti alla Consulta.
Nello scontro tra governo e Procura, si è però inserita l’azienda, che da oltre un mese ha avuto gioco facile nel sostenere che per garantire la continuità produttiva del siderurgico, il pagamento degli stipendi e l’ottemperanza delle prescrizioni presenti nella nuova AIA, fosse imprescindibile il rientrare in possesso del prodotto sequestrato. Nell’attesa, l’Ilva ha fermato l’area a freddo mandando in cassa integrazione 1500 lavoratori (e impedendone l’ingresso in azienda blindando con lucchetti le entrate), continuando a produrre e inviando il materiale direttamente negli stabilimenti dei Genova e Novi Ligure, dove avviene la lavorazione a freddo dell’acciaio prodotto a Taranto. Questo perché l’Ilva, che si estende su un perimetro di 15.000.000 di metri quadrati, sostiene la peregrina tesi secondo cui il materiale sotto sequestro, occupando i magazzini e gli spazi delle banchine del porto in concessione all’azienda, non consenta all’azienda di lavorare in totale libertà.
Inoltre, non disponendo del miliardo di euro, l’Ilva si dice impossibilitata a pagare fornitori e lavoratori, oltre che a programmare gli investimenti per il risanamento degli impianti inquinanti. Ma appare davvero singolare come un’azienda che dal 2009 al 2011 ha messo a bilancio un fatturato netto di oltre 23 miliardi di euro, oggi sostenga di avere grossissimi problemi di liquidità. Qualcosa dunque non torna, se è vero come è vero che l’Ilva negli ultimi quattro anni ha visto crescere i suoi debiti da 335 milioni a 2,9 miliardi di euro.
Ma anche venerdì sera, durante il Consiglio dei Ministri, il ricatto economico ha funzionato: il presidente Ilva, Bruno Ferrante, ha infatti dichiarato che senza lo sblocco del prodotto sequestrato, l’unica alternativa per l’azienda è quella di mandare in cassa integrazione tutti i dipendenti Ilva in Italia distribuiti in 19 stabilimenti. Una sorta di preannunciato crack finanziario, nonostante l’azienda possa produrre e commercializzare quanto realizzato dallo scorso 4 dicembre in poi.
Ciò detto, è difficile intuire in cosa possa consistere il provvedimento esplicativo promesso dal governo. Indiscrezioni parlano di un testo che “obblighi” la Procura a dissequestrare il prodotto, in attesa che la Consulta si pronunci sui vari ricorsi. Ma cosa accadrebbe nel caso in cui la Consulta dovesse dare ragione ai magistrati tarantini? In quello spazio di tempo infatti, l’Ilva avrà già venduto il prodotto conteso. Forse, l’unica soluzione giusta, sarebbe quella di lasciar vendere il prodotto all’Ilva confiscandone i proventi, come iniziale risarcimento per la popolazione tarantina. Visto che l’Ilva non ha ancora presentato un piano industriale a garanzia del futuro. E che della salute dei tarantini, sino ad ora, non si è interessato nessuno.
Gianmario Leone (Il Manifesto)
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