Per il ministero dello Sviluppo economico era presente il sottosegretario, Claudio De Vincenti. Per i sindacati c’erano i segretari generali di Cgil e Uil, Susanna Camusso e Luigi Angeletti, mentre la Cisl era rappresentata dal leader della Fim Beppe Farina e l’Ugl dal segretario confederale Paolo Varesi. Presenti anche le imprese: per Confindustria il direttore generale Marcella Panucci. Al tavolo, tra gli altri, anche il governatore della Puglia, Nichi Vendola e il sindaco di Taranto, Ippazio Stefàno.
Per anni abbiamo sperato che il problema dell’Ilva diventasse un “caso nazionale”, ma sinceramente non avremmo mai immaginato di arrivare a tanto. Ieri, infatti, è stata l’ennesima giornata di “ordinaria follia”. Con i nuovi attacchi alla magistratura arrivati dal ministro dell’Ambiente Clini, da Confindustria e Federacciai, gli appelli disperati del presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, i soliti toni allarmistici dei sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil, dal drammatico e vigliacco silenzio delle istituzioni locali. In pratica, tutti coloro i quali in questi anni hanno contribuito a creare il caos in cui ci troviamo, appoggiando le politiche scellerate del gruppo Riva, oggi si travestono da pompieri recitando la parte di chi vuole salvare il sistema economico italiano ad ogni costo, anche andando contro la Costituzione italiana ed una Procura che altro non tenta che far applicare la legge.
Eppure, basterebbe che tutti questi signori venissero a Taranto, all’interno dell’Ilva, per rendersi conto di come stanno effettivamente le cose. Siamo dunque costretti, ancora una volta, ad assistere ad una scena penosa, in cui nessuno ha il coraggio di dire la verità. E’ bene innanzitutto ricordare che l’Ilva continua a produrre e non ha mai smesso di farlo, neanche quando avrebbe dovuto. L’attività produttiva del siderurgico più grande d’Europa è andata avanti senza alcuna interruzione: se un domani ciò non dovesse più avvenire, è soltanto per volontà dell’azienda. Le materie prime vengono scaricate al porto, l’area a caldo lavora e produce, il prodotto viene spedito negli stabilimenti di Genova e Novi Ligure.
Non vi è alcun blocco delle attività, né vi è mai stato sino ad oggi. Dunque non capiamo il perché si continui ad urlare ai quattro venti che si deve consentire all’Ilva di “riprendere la produzione”. Invitiamo tutti questi signori a venire a vedere gli impianti dell’area a caldo che producono continuando ad avvelenare l’ambiente e l’aria che respirano i polmoni degli operai e dei cittadini di Taranto. Così come siamo ancora una volta costretti a sottolineare come sia assolutamente falsa e infondata la teoria secondo cui il materiale sequestrato lo scorso 26 luglio impedisca all’Ilva di liberare i magazzini e le aree del porto in dotazione al siderurgico. L’azienda, grande due volte e mezzo la città, dispone di una serie di capannoni vuoti e di grandi aree libere in cui poter spostare il materiale sequestrato, continuando così la sua regolare attività.
Il blocco dell’area a freddo, che peraltro non è mai stata sequestrata né dalla magistratura, né dalla Guardia di Finanza, è a tutt’oggi ferma soltanto per volere dell’azienda. Del resto, la contraddizione è nei termini: come può essere che l’area a caldo (che è ancora sotto il sequestro virtuale della Procura) lavora senza problemi mentre l’area a freddo non ha di che lavorare? Perché il governo, le istituzioni e i sindacati non chiedono spiegazioni ad un’azienda che chiude con i lucchetti gli accessi alle aree invece di studiare l’ennesimo atto incostituzionale per continuare a proteggere un gruppo industriale diviso tra arresti domiciliari, carcere e latitanti? E che come avvenuto l’altra notte, per evitare che si vedano ad occhio nudo le emissioni inquinanti, spegne le luci nell’acciaieria 1 mettendo a serio rischio la vita degli operai?
Così come è bene ricordare che sostenere la teoria secondo cui l’Ilva senza il miliardo derivante dalla vendita del prodotto sequestrato non può garantire la sopravvivenza dello stabilimento, è assolutamente fuori dalla realtà. Si vuol far credere ad una città e ad un paese intero che un gruppo industriale che ha incassato miliardi di euro per decenni, oggi dipenda da un solo miliardo con il quale dovrebbe svolgere una serie infinita di attività: dal pagamento degli stipendi dei lavoratori all’ottemperare le prescrizioni dell’AIA per le azioni di risanamento degli impianti. Inoltre, si vuol far credere ai tarantini che da quel miliardo dipenda il piano industriale per i prossimi anni. L’Ilva può tranquillamente vendere quanto prodotto dallo scorso 4 dicembre e incassare nuova liquidità, in attesa che la Consulta si pronunci sui vari ricorsi sollevati dalla Procura di Taranto.
Il gruppo Riva possiede una liquidità enorme nei vari paradisi fiscali, profitto costruito negli anni sulla pelle degli operai e di un intero territorio: non sono poveri, non sono in crisi. Altrimenti perché mai avrebbero dovuto esporsi con debiti per oltre 2,9 miliardi di euro con le banche? Oramai anche le pietre hanno capito che il sequestro del materiale prodotto, è soltanto l’ultimo pretesto del gruppo Riva, che non ha il coraggio di affermare una semplice volontà: quella di lasciare l’Ilva e Taranto al suo destino. Non è un caso se ieri, durante il consiglio dei Ministri, il presidente Ilva Bruno Ferrante ha dichiarato che stando così le cose, l’unica soluzione possibile è mandare in cassa integrazione tutti i dipendenti del gruppo Ilva in Italia.
In pratica, è come se il gruppo Riva stesse per dichiarare una sorta di finto crack finanziario (per pagare gli stipendi di febbraio ci vogliono 75 milioni che l’azienda finge di non avere). Dal quale non potrebbe salvarlo nemmeno il governo. Anche perché è difficile immaginare in cosa debba consistere questo nuovo provvedimento esplicativo che il governo starebbe studiando. Oramai, anche l’esecutivo ha giocato tutte le sue carte. La storia dell’Ilva e del gruppo Riva pare essere oramai giunta all’ultima curva. Il cui finale è stato scritto molto tempo fa. Molto prima di quel famoso 26 luglio.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 19.01.2013)
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