Ora, stando alle minacce degli ultimi due mesi pronunciate dal presidente del Cda dell’Ilva Bruno Ferrante, il gruppo Riva annuncerà l’impossibilità di mantenere in vita il siderurgico. E, conseguentemente, il proprio disimpegno per quanto riguarda il rispetto nei tempi previsti delle prescrizioni della “nuova AIA”. Il tutto a causa di quel miliardo che per ora resta congelato nei magazzini insieme al milione e 700mila tonnellate di coils e lamiere sotto sigilli dallo scorso 26 novembre. Un miliardo di euro che nell’immaginario davvero senza limiti dell’azienda, sarebbe dovuto servire a tante cose: a pagare gli stipendi di 12mila dipendenti, così come i fornitori delle materie prime. Ma sarebbe servito anche a mantenere in vita le tante aziende dell’indotto che, vedi il caso SEMAT, hanno iniziato da tempo a spalleggiare l’azienda in politiche fratricide nei confronti degli operai. Sarebbe servito a pagare la cassa integrazione in deroga per oltre 1400 lavoratori dell’area a freddo, visto che la Regione Puglia ha clamorosamente bocciato il piano “ideato” dalle menti raffinatissime dei dirigenti Ilva. Non solo. Sarebbe anche servito a pagare i danni procurati dal tornado dello scorso 28 novembre (stimati in 10 milioni di euro).
Inoltre, sarebbe servito a pianificare il piano industriale e, di conseguenza, a delineare in dettaglio il piano finanziario in merito agli interventi previsti dall’AIA per il risanamento degli impianti dell’area a caldo, ivi inclusa la copertura dei parchi minerali. Per concludere, sarebbe servito anche ad appianare i 2,9 miliardi di euro di debiti che l’Ilva deve saldare entro il 2013. Avrebbero voluto fare tutto questo con quel miliardo. Il valore del materiale prodotto negli scorsi mesi nonostante non avessero alcuna facoltà per farlo. Hanno palesemente violato la legge, con l’appoggio silenzioso di istituzioni e sindacati. Hanno prodotto con quegli stessi impianti che erano stati posti sotto sequestro perché da anni erano e sono tutt’ora fonte di inquinamento e causa di fenomeni di malattia e morte negli operai e nella popolazione tarantina. Sono andati avanti nonostante tutto. E quindi hanno continuato ad inquinare come se niente fosse. Si sono fatti riscrivere un’Autorizzazione ambientale integrata dopo non essere stati in grado di rispettare la precedente, che altro non era che un’autorizzazione ad inquinare liberamente grazie all’appoggio di istituzioni, enti locali e sindacati.
Si sono anche fatti scrivere su misura un’apposita legge che scavalcasse e levasse di torno gli impicci creati dalla Procura di Taranto. Hanno seminato panico e terrore nei lavoratori disinformandoli costantemente. Hanno spacciato per vere perizie di esperti internazionali che dicono come Taranto non sia una città più inquinata di tante altre. E dove ci si ammala e muore nella media. Hanno contrastato con ogni mezzo il lavoro dei custodi giudiziari che altro compito non avevano se non quello di segnalare gli impianti da risanare e fermare quelli più inquinanti. Hanno presentato piani di intervento palesemente inutili ed inefficienti. E adesso, a cascata, faranno fermare anche gli altri 19 impianti in Italia. Ma la giostra è arrivata all’ultima corsa. E la festa sta per finire. A breve tutti dovremo fare i conti con una realtà che si è voluto continuare a non vedere e a non contrastare in maniera seria sino all’ultimo istante. E a pagarne le conseguenze sarà ancora una volta un’intera comunità. Nessuno escluso. Ma non per questo bisogna recitare ancora una volta la parte, perfetta per noi tarantini, delle vittime sacrificali. Perché se è vero che “le persone affascinate dall’idea del progresso non intuiscono che ogni passo in avanti è nello stesso tempo un passo verso la fine” come scriveva il brillante autore cecoslovacco Milan Kundera, è altrettanto vero che come affermava il nostro Carlo Dossi, “massimo segno della fine, è il principio”. Coraggio, Taranto: la storia è ancora tutta da scrivere.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 16 gennaio 2013)
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