L’Ilva col fiato sospeso
TARANTO – La giornata di oggi può trasformarsi nel classico D-Day per l’Ilva. In queste ore infatti, l’azienda attende il responso di ben due verdetti: uno dal Tribunale dell’appello e uno dal gip Patrizia Todisco, il magistrato che lo scorso 26 luglio firmò il provvedimento di sequestro preventivo dell’intera area a caldo del siderurgico. L’azienda del gruppo Riva è in attesa di sapere se tornerà in possesso delle merci sequestrate il 26 novembre scorso (un milione e 700mila tonnellate fra coils e lamiere dal valore commerciale di un miliardo di euro), oppure se dovrà rinunciarvi attendendo che la Corte Costituzionale, su istanza dei giudici di Taranto, si pronunci sulla legittimità costituzionale della legge 231 del 24 dicembre (sul decreto 207 del 3 dicembre, invece, la Procura di Taranto ha presentato ricorso alla Consulta sollevando l’eccezione sul conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato la cui ammissibilità sarà discussa il prossimo 13 febbraio) che ha autorizzato l’Ilva a proseguire la produzione (che non si è mai arrestata nonostante i sigilli dei carabinieri del NOE e la non facoltà d’uso degli impianti a fini produttivi imposta dal sequestro) e a commercializzare i materiali prodotti (anche quelli realizzati precedentemente il varo del decreto legge, dando così un effetto retroattivo che rappresenta un caso più unico che raro nella legislazione italiana: ma per l’Ilva è tutto lecito).
Per rientrare in possesso del materiale sequestrato, l’Ilva é ricorsa lo scorso 8 gennaio al Tribunale dell’appello al cui collegio ha fatto presente come esista una legge che stabilisce che l’azienda possa commercializzare anche quanto prodotto prima del 3 dicembre scorso, giorno in cui é stato pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” il decreto 207 che poi ha dato vita alla legge. In una memoria difensiva presentata due giorni dopo, il 10 gennaio, i legali dell’Ilva hanno ricordati i vari articoli della legge sottolineando come “l’intervento legislativo di cui viene predicata l’incostituzionalità non incide, né intende farlo, sull’applicazione della legge penale ma sulla definizione del suo contenuto”. Ricordando che “la delimitazione dell’effetto autorizzatorio” della legge 234 “ad un periodo non superiore a trentasei mesi” riguarda le “imprese che abbiano i requisiti occupazionali e strutturali previsti” e “nei soli casi in cui sussista l’assoluta necessità di salvaguardia dell’occupazione e della produzione”.
Del resto, il decreto e la conseguente legge sono state scritte su misura proprio per l’Ilva e per salvare il gruppo Riva dalla pressione della magistratura. La Procura invece, si oppone al dissequestro: coils e lamiere realizzati prima del 3 dicembre costituiscono infatti “corpo del reato” perché prodotti utilizzando gli impianti dell’area a caldo sui quali l’Ilva non aveva alcuna facoltà d’uso ai fini produttivi: non è un caso se la gestione dell’intera area era stata affidata ai tre custodi giudiziari. Al tribunale dell’appello infatti, i Pm hanno anche chiesto che, nel caso in cui venga deciso di reimmettere in possesso l’azienda del materiale sotto sequestro, i custodi siano sollevati dal loro incarico. Questo perché “l’attività dei custodi-amministratori, volta ad eliminare le emissioni nocive e ad utilizzare gli impianti ai fini del risanamento con l’individuazione delle misure da loro ritenute necessarie allo scopo, si pone in chiara violazione del decreto che, invece, da un lato consente la piena attività produttiva nonostante essa sia foriera di emissioni nocive incontrollate, dall’altro, esclude ed addirittura vieta ai custodi-amministratori (e non solo a loro) di individuare ulteriori criticità idonee ad imporre misure aggiuntive e diverse rispetto a quelle previste nell’Aia e nel successivo provvedimento di riesame della stessa”.
Se invece i giudici bocceranno il ricorso dell’azienda, i Pm hanno chiesto al tribunale di sollevare eccezione di costituzionale nei confronti di una legge che antepone la produzione alla tutela della salute, violando la Carta Costituzionale (art. 32); mettendo inoltre al riparo l’Ilva, per 36 mesi, dall’obbligatorietà dell’azione penale della Procura; infine, viola anche la Carta europea dei diritti dell’uomo e il trattato di Lisbona. Stessa richiesta è stata rivolta anche al gip Patrizia Todisco, cui tocca decidere se dissequestrare o meno il milione e 700mila tonnellate di merci. Le due decisioni, quasi certamente, arriveranno se non insieme, una di seguito all’altra. E avranno un peso decisivo nella vicenda Ilva. L’Ilva ha infatti da tempo messo le mani avanti: senza quel miliardo, la vita del siderurgico è compromessa. Indi per cui, si fermerebbe all’istante il percorso di realizzazione delle prescrizioni presenti nell’Autorizzazione integrata ambientale trasformata in legge dal governo.
Domanda: ma l’Ilva ha davvero iniziato a mettersi a norma? A noi risulta soltanto che si è fermato l’AFO 1 e si sono spente le batterie 4 e 5 che lo alimentano. Lavori annunciati e previsti dall’azienda ben prima della stesura della nuova AIA. Leggiamo che a breve dovrebbero fermarsi anche le batterie 3 e 4, ed iniziare i lavori per AFO 2 e AFO 4 (visto che AFO 3 è fermo da tempo e non sarà più rimesso in marcia). L’AFO 5, che i custodi giudiziari volevano fermare sin da subito, potrà continuare a produrre sino alla primavera inoltrata del 2014: del resto, è il più grande d’Europa e contribuisce al 40-45% della produzione dell’Ilva, dunque è stato “saggiamente” salvato dal governo. Su tutto il resto, c’è un silenzio totale.
Sulla progettazione della copertura dei parchi minerali così come dei controlli sulle emissioni: tutto tace. Per non parlare del fatto che non è un caso se l’azienda sino ad oggi non ha presentato alcun piano industriale: che è chiaramente legato al dissequestro del materiale prodotto. Senza piano industriale (che serve a capire le reali intenzioni del gruppo Riva) non ci sarà nemmeno il piano finanziario in merito ai singoli investimenti sugli impianti e sulle diverse aree del siderurgico. Conseguenza “logica”, l’annunciato dubbio sul pagamento, a febbraio, degli stipendi del mese di gennaio. Se le cose andranno come devono, sia il tavolo romano in programma domani che la nuova “calata” del ministro dell’Ambiente Corrado Clini, saranno del tutto inutili. E Taranto dovrà fare i conti con una realtà molto diversa.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 14.01.2013)