Ieri mattina, durante l’udienza al tribunale dell’Appello, i Pm che indagano i vertici Ilva per associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, hanno depositato sia la richiesta di revoca dei custodi giudiziari, sia l’eccezione di legittimità costituzionale per una legge che, come scrivemmo nei mesi scorsi, si pone in netto contrasto anche con le norme della comunità internazionale (trattato di Lisbona e Carta europea dei diritti dell’uomo). L’attività dei custodi-amministratori, volta ad eliminare le emissioni nocive e ad utilizzare gli impianti ai fini del risanamento con l’individuazione delle misure da loro ritenute necessarie allo scopo, “si pone in chiara violazione del decreto di cui sopra che, invece, da un lato consente la piena attività produttiva nonostante essa sia foriera di emissioni nocive incontrollate, dall’altro, esclude ed addirittura vieta ai custodi-amministratori (e non solo a loro) di individuare ulteriori criticità idonee ad imporre misure aggiuntive e diverse rispetto a quelle previste nell’Aia e nel successivo provvedimento di riesame della stessa”. Questi i motivi, peraltro del tutto logici e condivisibili, che hanno portato i Pm a chiedere la revoca del loro incarico.
Abbiamo più volte spiegato e sottolineato il perché la legge ‘salva Ilva’ non sia altro che un vero e proprio colpo di Stato nei confronti della città di Taranto e del suo futuro. A testimoniarlo, adesso, ci sono anche le 27 pagine firmate dai Pm guidati dal procuratore capo Franco Sebastio e depositate ieri. In cui la legge 231/2012 viene descritta come “una vera e propria cappa di totale immunità dalle norme penali processuali che non ha uguali nella storia del nostro ordinamento giuridico”. Un testo normativo in cui è presente una “chiarissima la violazione dell’articolo 3 della costituzione” (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”), in quanto nei 36 mesi previsti dal decreto (in cui l’Ilva è abilitata all’attività produttiva) “identici fatti (di reato) se commessi da alcune imprese (quelle previste dal decreto) non sono soggetti alla sanzione penale, se commessi da altre imprese (non indicate nel decreto) sono invece soggetti alla sanzione penale”. In pratica, è come se si dicesse che solo le aziende non riconosciute come “siti di interesse strategico nazionale” debbano rispettare la legge. Una dicitura molto poco chiara, perché “tutto sembra rimesso alla più ampia discrezionalità dell’autorità amministrativa”.
Anche perché, secondo i magistrati, un’azienda potrebbe divenire di interesse strategico nazionale anche successivamente “rispetto all’intervento della magistratura consentendo una sospensione ingiustificata dell’operatività della legge solo per alcune imprese e non per altre”. I Pm criticano anche la sanzione prevista del pagamento di una multa del 10% del fatturato qualora l’azienda non rispettasse quanto stabilito dalla legge. “Sanzione che ovviamente risulta totalmente inadeguata a tutelare salute e ambiente perché per un periodo di 36 mesi in sostanza l’impresa ha la possibilità di inquinare anche se, per avventura, e possibile stabilire molto prima di tale termine che la stessa non si adeguerà alle prescrizioni stabilite dall’AIA”.
Nel testo infatti non è previsto “nessun blocco dell’attività produttive quindi delle emissioni nocive”. Evento che invece “era possibile giungere a livello sanzionatorio con l’AIA”, ma non con il decreto convertito in legge, nel quale “viene eliminata la possibilità di giungere alla eliminazione delle emissioni nocive a livello sanzionatorio e viene introdotta esclusivamente la sanzione di natura patrimoniale: come a dire che la produzione inquinante deve comunque continuare in danno della salute dell’ambiente, l’importante è pagare la possibilità di inquinare”. Infine, i giudici sottolineano anche un aspetto di non poco conto: la legge “salva Ilva” impedisce a tutti i cittadini di difendersi, anche e soprattutto per via legale, dalle emissioni nocive della fabbrica. “Nessuno può chiedere di bloccare le emissioni di diossina, benzo(a)pirene e altri inquinanti in modo diffuso e incontrollato causa di gravissimi danni alla propria salute ambiente in cui vive. Il giudice che dovesse ricevere una domanda (citazione, ricorso, ecc.) di questo tipo dovrebbe rigettarla perché la legge autorizza tali emissioni”.
Ma di fronte a tutto questo, il presidente del Cda dell’Ilva Bruno Ferrante continua a dichiararsi “perplesso”. Per l’azienda, dunque, la legge rientra nei confini della Carta Costituzionale: è la magistratura che ha assunto un atteggiamento di totale “accanimento nei confronti dell’Ilva, di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie”. Eppure il buon Ferrante, un ex Prefetto che dovrebbe conoscere la legge e la Costituzione, finge di non capire. Anzi, rilancia. Sostenendo come l’azienda abbia già iniziato ad ottemperare alle prescrizioni dell’AIA, con la fermata dell’AFO 1 e il rifacimento delle batterie 4 e 5, che però erano state già messe in preventivo dall’azienda prima del sequestro dello scorso luglio.
Non solo: perché Ferrante ha anche il coraggio di sostenere che “l’ARPA ha dichiarato recentemente che la situazione ambientale di Taranto è sotto controllo, con una diminuzione sia del PM10 che del contenuto di benzo(a)pirene”. Ma l’agenzia regionale per la protezione ambientale ha specificato che tale evento “straordinario” è da addebitare all’abbassamento dei cumuli di minerale nei parchi operato dai custodi giudiziari. Il buon Ferrante infatti, “dimentica” di dire che da gennaio a fine agosto (prima dei provvedimenti dei custodi) la centralina di via Machiavelli ha registrato ben 36 sforamenti del valore limite nell’aria di Pm10 (50 µg/m3): uno in più dei 35 annuali previsti dalla legge. Così come non dice che il livello di benzo(a)pirene, attestatosi a 0.85 ng/metro cubo inferiore all’obiettivo di qualità di 1ng/m3, riguarda dati aggiornati al mese di settembre: dunque, anche nel 2012 (dopo averlo sforato nei quattro anni precedenti) il valore potrebbe essere superato.
Non contento, Ferrante continua a stupirsi del perché, a fronte di una legge che consente all’Ilva di rientrare in possesso del materiale prodotto, i magistrati continuino ad opporsi al loro rilascio (“senza ragionevoli motivi”). Fingendo di dimenticare che quel materiale è stato prodotto in totale e palese violazione della legge, in quando l’Ilva non aveva la facoltà degli impianti dell’area a caldo per proseguire nell’attività produttiva. Ecco perché, essendo diventato corpo del reato per colpa della stessa azienda, è giusto che quell’acciaio resti sequestrato.
Ma per un’azienda che da sempre ha agito in totale impunità inseguendo soltanto la logica del profitto in spregio all’ambiente e alla salute di un intero territorio, tutto quello che sta avvenendo è, passateci il termine, “contro natura”. Ecco perché nella logica dell’Ilva, “va da sé che lo sblocco della merce è a questo punto imprescindibile per continuare la vita aziendale gravemente danneggiata dai provvedimenti della magistratura”. L’ennesima minaccia, che poi è sempre la stessa, di prossima chiusura dell’Ilva e di tutti e 19 gli impianti presenti in Italia “a causa” della magistratura.
Ma la perla, come sempre, viene alla fine. “L’azienda ha messo in atto un grandissimo sforzo finanziario per procedere regolarmente al pagamento degli stipendi del mese di dicembre”: come se fosse una specie di regalo o un’opera misericordiosa retribuire il lavoro degli operai, e non un diritto di quest’ultimi. La strategia della tensione messa in atto dal gruppo Riva è una marea che sale lentamente giorno dopo giorno e che non prevede di lasciare feriti dietro di sé.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 09.01.13)
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