TARANTO – S’incontreranno questo pomeriggio alle 16: da un lato i dirigenti dell’Ilva, dall’altro i segretari generali di Fiom, Fim e Uilm. L’azienda ha dunque accettato la richiesta d’incontro urgente avanzata dai sindacati ieri mattina, dopo che nel week end, in concomitanza con il no della Procura all’istanza in cui l’Ilva chiedeva l’attuazione della legge che le consente di ritornare in possesso del materiale prodotto durante il sequestro dell’area a caldo senza facoltà d’uso, in fabbrica si era sparsa la voce di un probabile ritardo nel pagamento degli stipendi di dicembre. Il presidente Ilva Bruno Ferrante, nella giornata di sabato, aveva infatti subito messo le mani avanti: “Abbiamo difficoltà oggettive: la priorità è risolvere la questione giudiziaria: solo così potremo capire come risolvere le difficoltà”.

Ma che il tutto rientri nell’ennesima sceneggiata da “strategia della tensione” da parte dell’azienda, lo dimostra il fatto che, prima di ottenere il no da parte della Procura, i dirigenti del siderurgico avevano addirittura informato i sindacati che l’erogazione degli stipendi di dicembre sarebbe avvenuta venerdì 11 perché il 12, giorno in cui l’Ilva accredita gli stipendi sui conti degli operai, cade di sabato. E così, dopo il ritardo dell’erogazione delle tredicesime (dal 20 al 27 dello scorso mese), adesso gli operai temono un nuovo colpo gobbo da parte dell’azienda. Certo è che, in quest’ultima puntata dell’annosa vicenda che riguarda il siderurgico, nessuno ne esce bene. Visto che tutti sapevano perfettamente che dal 26 luglio al giorno del varo del decreto legge, il 3 dicembre scorso, si stava infrangendo la legge.

L’azienda in primis, visto che ha continuato a produrre acciaio nonostante dal 26 luglio gli impianti dell’area a caldo erano stati posti sotto sequestro preventivo da parte dell’autorità giudiziaria, che aveva negato la facoltà d’uso degli stessi perché, come scritto nell’ordinanza dal gip Patrizia Todisco, “non può più essere consentita una politica imprenditoriale che punta alla massimizzazione del risparmio sulle spese per le performance ambientali del siderurgico, i cui esiti per la comunità tarantina ed i lavoratori del siderurgico, in termini di disastro penalmente rilevante, sono davvero sotto gli occhi di tutti, soprattutto dopo i vari, qualificati e solidissimi contributi tecnico-scientifici ed investigativi agli atti del procedimento”.

Ciò nonostante, i sindacati hanno pensato bene di sostenere l’azienda nell’infrangere la legge, aggiornandoci quasi quotidianamente nei mesi di agosto e settembre, sulla reale marcia degli impianti: come se un 50, un 60 o un 70% dell’attività produttiva rispetto alla normalità, potesse in qualche modo cambiare la sostanza delle cose. Del resto, ciò che si doveva fare era ben noto a tutti: fermare alcuni impianti e spegnerne altri (seguendo le indicazioni dei custodi giudiziari a cui era stata affidata la gestione dell’area a caldo), avviare i lavori di risanamento e bonifica necessari e, soltanto dopo, “ripartire”. Anche questo, era mirabilmente specificato in poche righe nell’ordinanza del gip: “Solo la compiuta realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo individuate dai periti chimici, in uno alla attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni maggiormente inquinanti (quali quelle contenenti diossine e PCB), potrebbe legittimare l’autorizzazione – previa attenta ed approfondita valutazione, da parte di tecnici nominati dall’autorità giudiziaria, dell’efficacia, sotto il profilo della prevenzione ambientale, delle misure eventualmente adottate – ad una ripresa della operatività dei predetti impianti”.

Gli stessi operai del resto, proprio nei giorni più caldi di quei mesi, sostenevano come l’Ilva stesse non solo producendo, ma che lo stesse facendo anche a ritmi mai sostenuti prima: si parlava addirittura di 70-80 colate nell’arco di 24-48 ore. Un modo come un altro, per i lavoratori, di descrivere una situazione che per loro e non solo, aveva i contorni di un gigantesco paradosso. Con l’azienda che invece sapeva perfettamente di aver sconfinato nella più totale illegalità. Come lo sapevano gli stessi sindacati. Oltre alle istituzioni che però hanno preferito non vedere, lavorando silenziosamente a quel colpo di Stato da noi denunciato agli inizi di luglio e che ha poi preso forma con il rilascio della nuova AIA prima (26 ottobre), e con il decreto ‘salva-Ilva’ convertito in legge poi (3 e 24 dicembre). Tra l’altro, era assolutamente scontato che la Procura ritenesse tutto l’acciaio prodotto da quel 26 luglio in poi, prova del reato: quindi, sperare che oggi i magistrati tarantini cambino idea o linea soltanto perché è stata varata una legge palesemente anticostituzionale, è del tutto fuori dalla realtà.

Il perché era ben spiegato in poche righe di quell’ordinanza: “l’attuale situazione impone l’immediata adozione – a doverosa tutela di beni di rango costituzionale che non ammettono contemperamenti, compromessi o compressioni di sorta quali la salute e la vita umana – del sequestro preventivo dei predetti impianti, funzionale alla interruzione delle attività inquinanti ad essi ascrivibili e tali da integrare gli estremi delle fattispecie criminose ipotizzate dalla Procura della Repubblica di Taranto. Ciò, affinché – considerate le inequivocabili e cogenti indicazioni affidate alla valutazione dell’Autorità Giudiziaria dalle perizie espletate e dagli ulteriori accertamenti svolti nel corso delle indagini – non un altro bambino, non un altro abitante di questa sfortunata città, non un altro lavoratore dell’ILVA, abbia ancora ad ammalarsi o a morire o ad essere comunque esposto a tali pericoli, a causa delle emissioni tossiche del siderurgico”.

Ciò detto, resta per noi assolutamente inconfutabile che il futuro dell’Ilva non dipenda affatto da quel milione e passa di coils e semilavorati sotto sequestro dal valore di un miliardo di euro. Un’azienda seria, non solo avrebbe rispettato la legge. Ma avrebbe già presentato un dettagliato piano industriale a garanzia degli investimenti da apportare sugli impianti nel giro dei prossimi tre anni. E avrebbe dichiarato senza ambiguità alcuna la sua reale situazione finanziaria. Invece, ancora una volta, il gruppo Riva ha mostrato il suo vero volto. Lo ha fatto attraverso una battaglia legale senza sosta, fatta di ricorsi su ricorsi; ha pensato bene di convincere i più attraverso annunci di piani di investimento immediati mai realizzati; ha uno dei più importanti dirigenti del gruppo Riva Fire, Fabio, latitante dallo scorso 26 novembre e su cui pende un mandato di cattura internazionale; ha spostato il tesoro di famiglia al riparo nelle holding offshore. Oltre ad avere una situazione debitoria certamente non semplice: 2,9 miliardi di euro che andranno tutti saldati entro il 2013. Eppure, qui c’è ancora chi è disposto a credere alle favole.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 08.01.13)

 

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