Ilva, riparte il teatrino
TARANTO – Il copione, da mesi, è sempre lo stesso. Da un lato c’è l’Ilva che prova, anche grazie all’aiuto del governo, a riportare le lancette del tempo a prima di quel doppio fatidico 26: di luglio quando avvenne il sequestro dell’area a caldo, di novembre quando la Guardi di Finanza appose i sigilli ai materiali prodotti negli ultimi quattro mesi. Dall’altro invece, c’è la magistratura tarantina che tiene dritta la barra della legalità, sbarrando la strada che porta direttamente ad una manifesta illegalità. Il risultato della nuova puntata dell’infinita battaglia legale in corso, è una nuova rappresaglia sociale che potrebbe abbattersi nuovamente sui lavoratori del siderurgico tarantino (e di riflesso sull’intera città).
Dopo aver ricevuto le tredicesime con una settimana di ritardo, i dipendenti Ilva rischiano ora di veder slittare l’erogazione dello stipendio del mese di dicembre, in calendario il prossimo 12 gennaio. Il tutto, a detta dell’azienda, è dovuto al no espresso dai Pm tarantini rispetto all’istanza di dissequestro dei coils e dei semilavorati (1.700.000 tonnellate per un valore di circa un miliardo di euro sequestrati dalla Guardia di Finanza lo scorso 26 novembre) presentata dai legali dell’Ilva all’indomani della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della legge 231 che il 24 dicembre ha convertito il decreto 207 del 3 dicembre 2012, il cosi detto “salva Ilva”.
Per i magistrati tarantini, il decreto e la sua conversione in legge, rappresentano ampi tratti di incostituzionalità (oltre che rappresentare un chiaro conflitto tra i diversi poteri dello Stato per cui è stato già avanzato un ricorso alla Consulta): per questo hanno rigettato l’istanza dell’Ilva, inviando le carte al gip Patrizia Todisco. Che ora dovrà valutare se ritenere manifestamente infondata la questione sollevata dai Pm – ritenendo quindi che la legge operi nel recinto delineato dalla carta costituzionale – e quindi restituire i beni all’azienda; oppure, se dovesse ritenere valide le eccezioni sollevate dalla procura, inviare gli atti alla Corte costituzionale e sospendere il giudizio – con il prodotto che resterebbe sotto sequestro – fino alla decisione della Consulta sulla legittimità costituzionale della legge.
L’Ilva, però, ha fretta e non ha alcuna intenzione di rinunciare a quell’acciaio (nonostante sia provento di un’attività avvenuta “contra legem” in quanto dal 26 luglio al 4 dicembre scorso l’azienda non aveva la facoltà d’uso degli impianti a fini produttivi): per questo sabato si è svolto un vertice, in cui è stata discussa la strategia da adottare per quanto riguarda l’udienza del tribunale dell’Appello in programma domani, a cui l’azienda ha presentato da tempo un ricorso in cui chiede appunto il dissequestro del materiale. Intanto, il presidente Ilva Bruno Ferrante ha già messo le mani avanti: “Abbiamo difficoltà oggettive: la priorità è risolvere la questione giudiziaria: solo così potremo capire come risolvere le difficoltà”. Poche parole che però sono bastate per far sì che tra i lavoratori Ilva tornasse a salire altissima la tensione.
Del resto, anche i sindacati metalmeccanici paiono alquanto disorientati e fortemente indecisi sulla strada da intraprendere. Venerdì il segretario generale della Cgil Puglia, Giovanni Forte, ha usato “stranamente” parole molto forti nei confronti del gruppo Riva, sostenendo come esso non sia più “credibile e in grado di effettuare i 4 miliardi di investimento richiesti dall’AIA entro il 2016”. Tornando a chiedere per questi motivi l’aiuto dello Stato “che però non vuol dire un ritorno alla nazionalizzazione delle industrie maggiori”. Fim Cisl e Uilm Uil invece, da sempre su posizioni fortemente ambigue, da un lato se la prendono con l’azienda “abbiamo chiesto un incontro urgente per capire le reali intenzioni del gruppo”, dall’altro, anche se più velatamente, tornano a puntare il dito contro le decisioni della magistratura tarantina: “Se non si vendono i coils, non si pagano i fornitori, non si svuotano i magazzini e non si può tornare a produrre”.
Con gli oltre 1400 lavoratori dell’area a freddo che rischiano di restare in cassa ben oltre il 31 gennaio: “Il ritardo dello stipendio creerebbe gravi tensioni tra i lavoratori: qui c’è gente che deve pagare mutui ed altre scadenza importanti”. Nell’area a freddo del siderurgico, solo i Treni nastri, che producono bramme, lavorano. In particolare, il 2 è in marcia e l’1 riparte quest’oggi. Attività al minimo, invece, alla finitura nastri mentre sono in standby i tubifici 1 e 2, l’Erw, che produce tubi di piccolo diametro, i rivestimenti, il treno lamiere e la produzione lamiere. Per i sindacati il blocco dell’area a freddo, oltre che per la crisi di mercato, è dovuto soprattutto al fatto che all’interno del siderurgico non vi sia più posto per far confluire altro materiale prodotto, vista la presenza dei coils e dei semilavorati sotto sequestro. Sarà.
Intanto, é davvero paradossale che un’azienda come l’Ilva dichiari di essere in difficoltà economica e si trovi in mancanza di liquidità, a causa di 1.700.000 tonnellate di materiale sequestrato. E che dal miliardo in ballo dipenda il futuro del siderurgico e quindi del gruppo Riva, dopo che per anni hanno registrato introiti miliardari oggi al sicuro nelle casseforti delle holding offshore. Tra l’altro, è stata la stessa azienda a infilarsi nel tunnel senza uscita in cui si trova adesso: perché ha consapevolmente continuato a produrre nonostante la magistratura le avesse tolto la facoltà d’uso degli impianti a tal fine. Aiutata in questo, che in italiano significa “infrangere la legge”, da istituzioni e sindacati che hanno pensato bene di non intervenire, pur consapevoli di quanto stesse avvenendo.
E chi oggi ha il coraggio di sostenere la tesi secondo cui essendo oramai stato prodotto avvelenando l’aria senza che vi sia possibilità di tornare indietro nel tempo, quell’acciaio vada restituito, è fortemente sospetto di incitare all’illegalità non solo l’Ilva, ma un’intera collettività. Purtroppo, ancora oggi, si continua a girare intorno al problema evitando accuratamente di affrontarlo nella sua oggettiva realtà. Il gruppo Riva è in fase avanzata di disimpegno. E il siderurgico sta vedendo lentamente volgere alla fine la sua storia. Invece di prolungare l’agonia, sarebbe il caso di rimboccarsi le maniche pensando e costruendo un’altra Taranto.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 07.01.13)