L’Ilva Spa è un vuoto a perdere

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TARANTO – Mentre i legali dell’Ilva hanno ripreso la battaglia legale per conto del gruppo Riva con la Procura di Taranto, l’attività produttiva del siderurgico tarantino, seppur a rilento, procede. Lo dimostrano le due navi giunte ieri alla banchina del porto di Genova in dotazione al gruppo Riva, che hanno consegnato i coils prodotti dall’Ilva dal 4 dicembre scorso, dunque al di fuori del sequestro. Il materiale consegnato ieri rimette in marcia lo stabilimento di Cornigliano che, al di là delle futili minacce dell’azienda e dei funesti presagi del segretario generale della Uilm di Taranto Antonio Talò, non si fermerà.

Il lavoro, per 1.900 dipendenti del gruppo Riva che lavorano a Genova, riprenderà lunedì. I magazzini dei laminati del sito genovese erano vuoti: da lunedì 7 non ci sarebbe stato nulla da lavorare in fabbrica. La chiusura appariva ineluttabile ma, “guarda caso”, i coils sono arrivati giusto in tempo: una specie di “regalo” della Befana. I sindacati genovesi tirano dunque un sospiro di sollievo, ma il rischio chiusura, a fronte dei ricorsi della Procura di Taranto, è tutt’altro che scongiurato. “Una serenità anche se momentanea”, ha ammesso Claudio Nicolini, segretario generale della Fim-Cisl. “Il pericolo il chiusura è scongiurato, almeno per ora”, ha confermato Franco Grondona, segretario della Fiom-Cgil di Genova. “Si ricomincia a lavorare, seppure con le difficoltà di mercato che non sono cambiate”.

A Cornigliano infatti, come riportammo lo scorso settembre nell’inchiesta sull’acciaio italiano, si lavora con i contratti di solidarietà che interessano 1.110 dipendenti su 1.720, previsti fino a fine 2013 e rinnovabili per un altro anno. Ma un dato positivo per i lavoratori genovesi c’è: nel decreto di stabilità è previsto che per quest’anno i contratti di solidarietà saranno rifinanziati con un’integrazione salariale all’80%, il 20% in più del tetto fissato per legge al 60%. Ma se a Genova tirano un sospiro di sollievo, a Taranto l’umore è tutt’altro che speranzoso. Lo dimostrano le dichiarazioni di Giovanni Forte, segretario generale della Cgil Puglia, che ieri ha candidamente dichiarato come “il gruppo Riva ha perso di credibilità. Riteniamo che non potrà mai più essere nelle condizioni di realizzare gli investimenti di 4 miliardi di euro. Siamo perplessi che il gruppo Riva abbia la capacità di mostrarsi come un gruppo industriale che guarda alla produzione ed all’interesse della comunità locale”.

Una presa di posizione inedita, mai assunta sin qui dalla Cgil né dalla Fiom. Forte ha rincarato la dose sostenendo che “ci sarà bisogno di un intervento più forte da parte dello Stato, che dovrà impegnarsi di più anche rispetto alla conduzione. Questo non vuol dire ritornare alla partecipazioni statali: si tratta di inventare nuove forme di partecipazioni dello Stato che oggi riguarda l’Ilva e domani altre imprese ritenute strategiche. Bisogna riuscire, dopo il decreto del governo nazionale, a far realizzare gli investimenti”. Una posizione alquanto ambigua che propone ipotetiche e poco chiare “nuove forme di partecipazione statale da inventare”. Ne è chiaro come fare per far sì che il gruppo Riva effettui gli investimenti necessari per il risanamento del siderurgico tarantino.

Come sosteniamo da tempo, tutto passa dal Piano Industriale che l’Ilva non ha ancora presentato: un documento fondamentale non solo per comprendere la volontà del gruppo Riva (se rimanere a Taranto o meno), ma anche per quantificare i mezzi finanziari che saranno impiegati per osservare le prescrizioni dell’Autorizzazione Integrata Ambientale dell’ottobre scorso, quantificate dal ministero dell’Ambiente in non meno di 3,5 miliardi di euro. Più volte in questi mesi infatti, abbiamo provato a fare luce sull’attuale e reale situazione economica della società. In nostro aiuto, arriva uno studio del “Centro Studi Siderweb” (portale che si occupa della siderurgia italiana), che conferma quanto pubblicato su queste colonne negli ultimi mesi: i debiti finanziari totali della società ILVA Spa sono passati da 335 milioni di euro nel 1996 a 2,9 miliardi di euro nel 2011, di cui soltanto 705 milioni con le banche, corrispondenti a circa un quarto del totale.

Il rimanente 75% sono debiti finanziari nei confronti delle altre società del Gruppo ILVA e della controllante Riva FIRE Spa. Il famoso gioco delle scatole cinesi. Nello stesso periodo, il patrimonio è passato da 620,8 milioni a 2,4 miliardi di euro; i debiti finanziari risultano quindi pari a 1,2 volte il patrimonio. I debiti finanziari sono aumentati soprattutto nell’ultimo quadriennio (da 1,8 a 2,9 miliardi) a causa della riduzione dei flussi di cassa provocata dai risultati negativi della gestione industriale (-805 milioni di euro). Dunque, stante così le cose, è palese il fatto che l’Ilva al momento “non disponga” delle risorse per ottemperare agli investimenti richiesti dall’AIA. Secondo un calcolo dello studio, tali interventi, che dovranno concludersi entro il 2016, rappresentano il 76% di tutti gli investimenti che l’ILVA ha effettuato nello stabilimento di Taranto dal 1995 al 2011.

Inoltre, le somme più rilevanti si concentreranno nei primi tre anni (2013-15) e dovranno convivere da un lato con un inevitabile rallentamento dell’attività per consentire gli interventi sugli impianti finalizzati a ridurre l’impatto ambientale, dall’altro con condizioni di mercato non certo esaltanti a causa della modesta crescita della domanda di acciaio in Europa e della compressione dei margini indotta dalla maggiore concorrenza tra i produttori mondiali di acciaio. Tutto ciò, sottolinea lo studio, avrà un impatto negativo sulla redditività della gestione industriale, che verrà anche gravata degli ammortamenti connessi ai nuovi investimenti (+750 milioni di euro tra il 2013 e il 2016) e degli oneri finanziari per la quota di investimenti finanziata con mezzi di terzi (350 milioni nel quadriennio, nell’ipotesi che il 50% degli investimenti sia finanziato con debiti onerosi; 700 milioni di euro nell’ipotesi di finanziare il 100% degli investimenti con debiti onerosi).

Alla fine del periodo considerato, i debiti finanziari della società salirebbero a 4.500 (50% degli investimenti finanziati con prestiti), 6.200 miliardi di euro (100% degli investimenti finanziati con prestiti), mentre il patrimonio diminuirebbe per far fronte alle perdite d’esercizio provocate dal peggioramento dei risultati della gestione industriale e dai maggiori oneri finanziari. Dunque, in assenza di un consistente aumento di capitale, la società registrerebbe una significativa perdita. La conclusione dello studio è intuibile, oltre che ovvia: “senza un intervento dello Stato per alleggerire gli oneri connessi agli investimenti che l’ILVA dovrà sostenere nei prossimi anni e/o un apporto di capitali freschi da parte dei soci attuali o altri che potrebbero entrare nella compagine azionaria, la prosecuzione dell’attività dell’ILVA nel medio periodo appare molto difficile”.

Peccato che in questo studio non si tenga volutamente conto che il gruppo disponga di un abbondante riserva di liquidità stoccata soprattutto nelle holding estere situate tra Lussemburgo e Olanda. Ecco perché l’Ilva oggi sostiene, “a buona ragione”, che senza la prosecuzione dell’attività produttiva e la vendita del materiale a tutt’oggi sotto sequestro, non potrà garantire la sopravvivenza del siderurgico tarantino e di tutti gli altri impianti (19 in tutto) disseminati sulla penisola. La verità, dunque, è una soltanto: il tesoro di famiglia è stato già messo al riparo. A dimostrazione del fatto che la reale volontà d’investire su Taranto è soltanto uno specchietto per le allodole. Il gruppo Riva è pronto al disimpegno: al massimo sarà disposto a portare avanti gli investimenti, ma spalmandoli su più anni e con l’aiuto dello Stato e dell’Unione Europea.

Quanto basta per far concludere il ciclo vitale delle batterie dei forni che alimentano la cokeria: 5, 10 anni al massimo (perché tutti sanno, Clini in primis, che gli investimenti richiesti non potranno mai essere effettuati entro il 2016). In caso contrario, con la Consulta che da ragione alla Procura di Taranto, si toglierà il disturbo in anticipo sui tempi previsti. Tanto, per l’eventuale risarcimento danni da versare nelle casse del Comune, ci sarà tutto il tempo per una lunga ed estenuante battaglia legale. Idem per i costi della bonifica: visto che per 35 anni il siderurgico è stato di proprietà statale. E ché il principio “chi inquina paga” vale soltanto in Europa e non in Italia. Il peggio, dunque, deve ancora venire.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 05.01.13)

 

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