TARANTO – Il 2013 è come se non fosse ancora iniziato per l’Ilva. Il nuovo anno infatti, non ha portato alcun cambiamento sostanziale nella vita del siderurgico. Si è tutti in attesa degli eventi e di un qualcuno che indichi la strada da seguire. E, possibilmente, chiarisca in maniera esauriente e convincente il futuro che attende la più grande fabbrica italiana. Le istituzioni, dopo il decreto ‘salva-Ilva’ convertito in legge dal Parlamento lo scorso 21 dicembre, tacciono. La Procura, invece, prosegue imperterrita sulla sua strada, avendo inoltrato un primo ricorso alla Consulta contro il Governo, sollevando il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato.

In mezzo al guado, come sempre, restano i cittadini. E soprattutto gli operai Ilva: i quali non possono contare sul sostegno dei sindacati metalmeccanici, al momento bloccati e impossibilitati ad agire. Questo perché, al di là di ciò che dichiarano i segretari di federazione, sono stati imbrigliati alla perfezione dalla strategia della famiglia Riva: che nonostante i domiciliari e la latitanza, riesce ancora ad essere più che presente nella vita del siderurgico. Del resto, dopo decenni di silenzi e connivenze, oggi è davvero complicato presentarsi ai tavoli di concertazione con l’azienda, brandendo la spada della chiarezza e della trasparenza e battendo i pugni sul tavolo per difendere i diritti dei lavoratori. I quali, come abbiamo riportato lo scorso 29 dicembre, non sono affatto convinti del fatto che la situazione sia realmente sotto controllo: diverse voci infatti danno per certo che il prossimo 12 gennaio, quando dovrà essere corrisposto lo stipendio del mese di dicembre, sui conti correnti non arriveranno gli attesi bonifici. Esattamente quanto accaduto con l’erogazione delle tredicesime, giunte con diversi giorni di ritardo.

I sindacati sostengono, seguendo la linea aziendale, che i ritardi sono dovuti alla mancanza di liquidità: ma come fa un’azienda come l’Ilva ad avere di questi problemi resta un mistero. Si sostiene che dopo il dissequestro dei prodotti finiti e semi lavorati (1.700.000 tonnellate pari ad un valore di quasi 1 miliardo di euro), la situazione rientrerà lentamente alla normalità. Ma far credere agli operai e ad un città intera che l’Ilva dipenda da quel miliardo di euro, è una barzelletta che non fa ridere nessuno. In molti, da dentro la fabbrica dell’acciaio, lanciano infatti da tempo messaggi poco rassicuranti: assistono, dicono, ad un lento disimpegno del gruppo Riva nella gestione dello stabilimento. Basta dare uno sguardo a come è stata gestita la situazione lavorativa dei 1428 lavoratori dell’area a freddo, per cui era stata chiesta lo scorso 13 dicembre la cassa integrazione in deroga fino al 31 dicembre, pari ad un 1.200.000 euro, per avere un quadro più chiaro della situazione.

La riunione del 28 dicembre in Provincia è stata un flop: la Fiom non si è presentata, l’azienda non ha presentato alcun piano dettagliato, l’assessorato provinciale del lavoro ha dichiarato di non avere le risorse per coprire la cassa in deroga, la Regione ha ricordato di aver proposto strade alternative (cassa ordinaria o straordinaria) rimaste inascoltate: risultato, il costo della cassa se lo accollerà per intero l’azienda. L’ente regionale ha bocciato la cassa in deroga anche perché l’Ilva non ha avanzato alcuna formale richiesta e perché l’azienda ha già in corso altre due procedure di cassa. Una riguarda la crisi di mercato e copre il periodo 4 dicembre 2012-marzo 2013 (1.200 i lavoratori in cassa integrazione ordinaria); l’altra per calamità a seguito dei danni del tornado, è invece attiva da fine novembre e nei giorni scorsi è stata prorogata di un altro mese, da fine dicembre 2012 a fine gennaio 2013 (200 i lavoratori interessati).

A queste due, dunque, si sarebbe dovuta aggiungere la cassa in deroga per i 1428 addetti dell’area a freddo. Ma è nell’indotto che si registra un dato ancor più preoccupante se possibile: sono infatti ben 2.500 lavoratori in cassa integrazione in deroga. Ma per 1.000 di questi, gli ammortizzatori sociali sono scaduti lo scorso 31 dicembre. Sono inoltre fermi vari reparti: il treno lamiere, i tubifici, alcuni pezzi del laminatoio a freddo, e il treno nastri 1 che dovrebbe ripartire lunedì 7 gennaio. Agli sporgenti 2 e 4 del porto in dotazione all’Ilva invece, si è tornati a scaricare il minerale per l’approvvigionamento dei parchi, con cinque gru. Difficile credere, dunque, che tutta questa situazione dipenda unicamente dal blocco dei prodotti, peraltro in procinto di essere restituiti all’azienda non appena la legge ‘salva-Ilva’ sarà pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale.

Il nodo da sciogliere, del resto, è sempre lo stesso e di ben altra caratura: la presentazione da parte dell’Ilva del piano industriale. Che ai sindacati è stato promesso entro gennaio. Da quel piano infatti, prescinde tutto il resto. Ovvero il futuro dell’Ilva e il reale impegno della famiglia Riva a portare a termine tutti gli investimenti previsti per il risanamento degli impianti. I sindacati e la politica sono convinti che la famiglia Riva non possa più sfuggire ai suoi obblighi: cosa li renda così certi non è dato sapere, visto che a fronte di un quanto mai probabile disimpegno, nessuno potrebbe impedire al gruppo di farsi da parte. Come già sostenuto su queste colonne infatti, nonostante la legge ‘salva-Ilva’, proprio la nuova iniziativa della Procura di Taranto potrebbe facilitare il tutto. Il gruppo Riva, infatti, avrebbe buon gioco nel sostenere e richiedere il rinvio dei finanziamenti e quindi la pianificazione del piano finanziario, in attesa di conoscere la decisione della Corte Costituzionale sul ricorso dei magistrati tarantini.

Perché infatti pianificare investimenti per miliardi di euro per i prossimi 3-4 anni, quando tra qualche mese l’area a caldo potrebbe tornare nuovamente sotto sequestro? E’ chiaro a tutti che una posizione del genere, altro non sarebbe che l’ennesima scusa adottata dall’azienda per sottrarsi alle sue responsabilità. Ed accelerare quel disimpegno di cui parliamo da tempo. Anche perché i Riva, così come la politica e i sindacati, sanno molto bene che non conviene, da nessun punto di vista, investire miliardi di utili per il risanamento di una fabbrica oramai vecchia, e che nei prossimi anni non riuscirà comunque a reggere la competizione con i paesi emergenti. E’ solo questione di tempo, dunque.

Basti pensare che, al di là di eventuale nuovi ricorsi da parte della Procura, la Consulta ha 30 giorni di tempo per decidere l’ammissibilità del ricorso e nei 20 successivi è prevista la costituzione delle parti. Al termine della successiva fase istruttoria, i giudici potranno emettere un provvedimento cautelare di sospensiva dell’efficacia della norma contestata o dichiarare l’inammissibilità o la manifesta infondatezza in camera di consiglio. Oppure accogliere il ricorso annullando il provvedimento contro cui si è sollevato il conflitto. Qualcuno, un paio di secoli fa, disse che “il tempo è denaro”. All’Ilva, di questi tempi, ne sono tutti convinti.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 4 gennaio 2013)

 

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