E’ indubbio però, che la cassa in deroga chiesta dall’azienda è un mezzo bluff, visto che potrebbe durare meno del previsto (31 gennaio) una volta che sarà approvato il decreto legge sull’Ilva, che dopo lo scandaloso emendamento presentato dal Governo, consentirà all’azienda di commercializzare i prodotti finiti e i semilavorati che l’autorità giudiziaria ha bloccato. Ma a proposito di operai e sindacati, sentiamo il dovere morale di ritornare sulla vicenda dell’operaio Ilva, Antonio Mingolla. Che dopo sei anni ha trovato giustizia. Nella speranza, per molti versi poco concreta, che certi eventi non si ripetano più.
I responsabili dell’Ilva di Taranto sono stati condannati insieme ai dirigenti di una delle ditte appaltatrici a due anni per concorso in omicidio colposo, per quell’operaio che fu stroncato dal gas killer fuoriuscito dall’altoforno 1: lo stesso che l’Ilva sta fermando soltanto in questi giorni per avviare i lavori di risanamento previsti da tempo dall’azienda. L’operaio, originario di Mesagne e padre di due figli, morì nel 2006 a 46 anni a causa delle esalazioni (chiamato in gergo “gas povero d’altoforno”) che lo investirono mentre, in assenza di adeguate misure di sicurezza, lavorava nell’impianto. La sentenza è arrivata giorni addietro e ad ascoltarla c’era anche la vedova Francesca Caliolo, parte civile nel processo e, dal 2006, rappresentante della Rete nazionale per la sicurezza sui posti di lavoro.
Una donna che ha girato l’Italia intera con orgoglio. A differenza dei vertici dell’Ilva, alcuni dei quali hanno preferito la latitanza, piuttosto che assumersi le loro responsabilità davanti ad un’inchiesta per disastro ambientale capace di far tremare l’intero sistema economico italiano. Tra i condannati, tra l’altro, non figura nessun dirigente di primo piano: questo perché il sistema delle deleghe a cascata li ha messi al riparo dalla giustizia. Una morte sicuramente evitabile, quella di Mingolla, che testimonia come per anni l’Ilva di Taranto abbia operato in assenza totale di controllo anche e soprattutto sulle condizioni di lavoro degli operai. Le relazioni dei periti e degli ispettori del lavoro infatti, hanno descritto uno scenario da brividi: a cominciare dall’assenza in un luogo a rischio, di una bomboletta da almeno due litri, che avrebbe potuto salvare la vita all’operaio consentendogli di fuggire dall’ambiente saturo di monossido di carbonio.
Anche e soprattutto di questo dovrebbero rispondere i sindacati (è sin troppo semplice costituirsi parte civile nel silenzio), le istituzioni e tutti coloro i quali in questi anni hanno protetto l’Ilva e i suoi padroni. C’è chi dice che per alcune vicende, bisognerebbe affidarsi soltanto alla giustizia divina. Noi, invece, preferiamo ancora credere in quella terrena degli uomini onesti, come lo era l’operaio Mingolla, e come lo è ancora oggi la vedova Caliolo e i suoi due figli. Che forse, dopo la sentenza, potranno guardare al futuro con un animo più sereno, ma non per questo meno doloroso. Confucio, famoso filosofo cinese vissuto oltre due millenni fa, affermava che “con la giustizia si contraccambi il male e con il bene si contraccambi il bene”.
Ma quando pensiamo al fatto che sul manuale in dotazione agli operai tra cui lo stesso Mingolla, campeggiava, beffarda, questa scritta “L’umorismo migliora l’ambiente di lavoro”, troviamo più adatto l’aforisma del contemporaneo Carl William Brown: “Il bandito Giuliano Mesina un giorno disse che sarebbe diventato completamente onesto quando la società sarebbe diventata realmente giusta”. Ad maiora.
Gianmario Leone (TarantoOggi del 15-12-2012)
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