L’Ilva chiude? Sì, no, forse
TARANTO – Nella vicenda Ilva, non poteva di certo mancare il lato comico. Protagonisti, nemmeno a dirlo, l’azienda e i sindacati metalmeccanici. Che dopo anni di connivenze e silenzi a scapito di lavoratori e cittadini, adesso vogliono far credere alla collettività tarantina ed all’Italia intera, di essere ai ferri corti: la verità è che il gruppo Riva sa molto bene di avere il coltello dalla parte del manico, con i sindacati che tentano di destreggiarsi come meglio possono in un labirinto di cristallo, consapevoli del fatto che il gruppo è in grado in qualsiasi momento di creare il caos sociale, in primis tra i lavoratori oramai sempre più lontani dal sentirsi rappresentati e garantiti dai sindacati.
Il teatrino inizia di mattina, quando l’Ilva informa i sindacati di aver chiesto, a partire da ieri, la cassa integrazione in deroga per 1.428 lavoratori dell’area a freddo. Il provvedimento dovrebbe durare sino al 31 gennaio prossimo ed è stato motivato dall’azienda con la situazione creatasi dopo che il gip Patrizia Todisco, ha confermato il sequestro dei prodotti finiti e dei semilavorati (un miliardo di euro per 1.700.000 di merci) disposto dall’autorità giudiziaria lo scorso 26 novembre nell’ambito degli sviluppi dell’inchiesta sull’Ilva per disastro ambientale. Nei giorni scorsi l’Ilva aveva già chiesto la cassa integrazione per l’area a freddo, ma si trattava di una cassa ordinaria della durata di 13 settimane, con avvio dal 19 novembre per un totale di 2mila addetti e motivata, in questo caso, con la mancanza di ordini a causa della crisi di mercato.
E’ indubbio però, che la cassa in deroga chiesta ieri potrebbe durare meno del previsto (31 gennaio) una volta approvato il decreto legge sull’Ilva, che dopo lo scandaloso emendamento presentato dal Governo, consentirà all’azienda di commercializzare i prodotti finiti e i semilavorati che l’autorità giudiziaria ha bloccato. Curioso il fatto che i lavoratori interessati dal provvedimento di cassa per crisi di mercato e in deroga sono gli stessi, perché tutti occupati nell’area freddo. La novità sta nel fatto che nella cassa in deroga sono stati coinvolti settori dello stabilimento che erano stati risparmiati dalla cassa per crisi di mercato. Invece adesso sono previste fermate per tutto il laminatoio a freddo, prima coinvolto solo parzialmente, il tubificio Erw, il Treno nastri 2 che invece era stato rimesso in marcia qualche giorno fa e la Finitura nastri.
I sindacati non hanno firmato l’accordo con l’azienda, chiedendo qualche giorno di tempo: probabile ciò avvenga in un incontro all’inizio della settimana prossima. Allo sblocco dei prodotti finiti e dei semilavorati, è inoltre legata la “sorte” di altri 2.500 lavoratori dei diversi siti produttivi Ilva in Italia (Racconigi, Salerno e Pratica di Mare sono già fermi) e all’estero (in Grecia dove c’è l’Hellenic Steel di Salonicco e la Tunisacier di Tunisi in Tunisia). Si temono ripercussioni anche negli stabilimenti francesi e nelle strutture di Torino, Milano, Padova, Salerno e Marghera. Arrancano, ovviamente, anche gli stabilimenti di Genova e Novi Ligure (1.500 gli addetti coinvolti) le cui lavorazioni e attività sono completamente alimentate dalle forniture che arrivano da Taranto.
Il sequestro della Guardia di Finanza non consente infatti all’Ilva di produrre altre merci, perché tutte le aree di stoccaggio e di movimentazione sono occupate da ciò che é stato sequestrato. Ma la verità è che l’azienda attende con relativa tranquillità che il decreto col nuovo emendamento diventi operativo ed efficace a tutti gli effetti in modo da poter avanzare alla Procura istanza di dissequestro, così come avvenuto per gli impianti dell’area a caldo tornati in possesso dell’azienda, pur restando di fatto il sequestro. L’azienda attenderà che si compiano tutti i passaggi parlamentari e non ricorrerà più contro l’atto del gip al Tribunale dell’appello come invece annunciato lunedì. Ma é sullo stato di “salute” dell’impianto di Genova, che i sindacati hanno dato il meglio.
La situazione in Liguria è che pur andando verso l’esaurimento delle scorte, l’impianto non si fermerà. Le cose stanno in questo modo: le scorte per il decatreno sono terminate mercoledì, quelle per la zincatura si esauriranno il 19 e quelle per la stagnatura il 23. Ma questo non vuol dire assolutamente che gli operai resteranno a casa. E’ bene infatti ricordare che dei 1.750 lavoratori in 1.150 sono in contratto di solidarietà, altri 750 alcuni andranno in ferie, altri saranno impiegati in lavori di manutenzione e pulizia. In attesa che tutto torni come prima con l’approvazione del decreto. Ma il segretario provinciale della Uilm di Taranto, Antonio Talò, a cui da sempre piace gettare benzina sul fuoco aizzando i suoi contro la magistratura e chiunque si opponga all’esistenza dell’Ilva a Taranto, ha affermato che l’azienda nell’incontro di ieri avrebbe dichiarato che Genova “si fermerà tra 3-4 giorni”.
Si scatena il panico, ma nel giro di qualche minuto, da Genova la stessa Uil e la Fiom smentiscono Talò: “lavoreremo almeno sino al 20 dicembre”. Anzi, da una ricognizione effettuata proprio ieri, è stato calcolato invece che ci sono scorte di materiale tali da poter lavorare fino al 20 gennaio. Entro i primi del mese prossimo, comunque, sono attese a Genova le prime navi con parte dei materiali ora sotto sequestro e materiali nuovi. Meglio ancora è stata capace di fare la Fim Cisl di Taranto, che auspica come il decreto passi “ed è esattamente quello che vogliono i lavoratori ma sono convinto che è anche quello che vuole la città”. Lo ha affermato il segretario della Fim Cisl di Taranto Mimmo Panarelli, evidentemente ignaro del fatto che in Italia esista una Costituzione e che sabato prossimo scenderanno in strada a manifestare migliaia di tarantini proprio contro quel decreto.
“Questa storia è nata perché lo stabilimento in queste condizioni non poteva più marciare perché creava problemi in termini ambientali e di salute. Se è vero questo, ed è vero, oggi ci sono gli elementi e gli strumenti affinché si superino queste difficoltà”. Peccato che sino al 25 luglio e oltre, non solo si sono schierati contro la magistratura, ma sostenevano come l’Ilva fosse un’azienda “modello europeo”. Chi ancora mantiene un minimo di lucidità è la Fiom, che descrive una realtà del tutto diversa rispetto a Fim e Uilm. “Sono sempre più confusi e ancora oggi non hanno un piano di gestione degli esuberi. Si procede a spizzichi e bocconi e si passa a una pluralità di ammortizzatori senza avere una visione d’assieme dei problemi che ci sono e che si presenteranno”, ha dichiarato il segretario provinciale della Fiom di Taranto, Donato Stefanelli.
“Non ci siamo proprio ed anche per queste ragioni ci siamo riservati su quanto prospettato nella riunione di oggi. Questa è la terza procedura di cassa integrazione. Siamo ancora al di qua dei problemi”. “Il punto – osserva ancora Stefanelli – è che l’azienda, pur sapendo che si andrà ad ulteriori fermate per effetto delle cose che stanno accadendo e dell’applicazione dell’Aia, non affronta le questioni nella loro globalità. Aspettano l’emendamento per rispondere a provvedimenti della magistratura. Ma è serio questo comportamento?”. Sarebbe però interessante sapere a chi è rivolta questa domanda.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 13-12-2012)