Taranto rischia di entrare nella storia, ancora una volta negativamente, come la prima città italiana del nuovo millennio in cui la democrazia e i diritti ad esse correlati sono di fatto stati sospesi a favore della salvaguardia di un non meglio precisato interesse strategico nazionale. Ciò detto, andiamo a vedere nel dettaglio cosa è accaduto nelle ultime 48 ore. Martedì il gip Patrizia Todisco, dopo aver recepito il parere negativo dei pm in merito all’istanza di dissequestro dei prodotti finiti avanzata dall’Ilva, ha confermato il no sostenendo come il provvedimento governativo non avesse effetto retroattivo: “Il divieto di retroattività della legge – ha scritto il gip – è fondamentale valore di civiltà giuridica e principio generale dell’ordinamento”.
Prendendo come spunto l’articolo 3 del decreto legislativo, il gip rilevava come “la norma impone di escludere radicalmente che si sia voluto attribuire efficacia retroattiva alla disposizione”. Per questo semplice motivo il giudice non ha concesso il dissequestro: 1 milione e 700mila tonnelate di coils, tubi e bramme per un valore stimato in quasi 1 miliardo di euro.
Il sequestro è scattato lo scorso 26 novembre, perché quell’acciaio é ritenuto provento dell’attività degli impianti dell’area a caldo sotto sequestro preventivo e senza facoltà d’uso. Immediata arrivava la reazione/rappresaglia dell’Ilva, che con una nota annunciava che con effetto immediato quasi 4000 operai sarebbero rimasti “senza lavoro”. A seguire, attraverso una nota ufficiale, il Consiglio dei ministri rendeva noto di aver deciso la presentazione di un emendamento “interpretativo” al decreto, in cui si chiarisce che la facoltà di commercializzazione dei manufatti da parte dell’Ilva, riguarda anche quelli prodotti prima dell’entrata in vigore del decreto ed attualmente sotto sequestro. L’unico modo per vanificare il provvedimento del gip di Taranto, dopo aver riconsegnato all’azienda l’area a caldo per proseguire l’attività produttiva, pur mantenendo in atto il sequestro.
Il comma 3 dell’articolo 3 del decreto 207 firmato il 3 dicembre dal Capo dello Stato, sino all’altra sera così recitava: “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, la società ILVA S.p.A. è immessa nel possesso dei beni dell’impresa ed é in ogni caso autorizzata, nei limiti consentiti dal provvedimento di cui al comma 2, alla prosecuzione dell’attività produttiva nello stabilimento ed alla conseguente commercializzazione dei prodotti per un periodo di 36 mesi, ferma restando l’applicazione di tutte le disposizioni contenute nel presente decreto”. Come si evince dal testo, quindi, non vi è alcun riferimento al prodotto sequestrato.
Di seguito, invece, l’emendamento che il governo è intenzionato a presentare direttamente all’approvazione del decreto legge alle camere, con tanto di fiducia, nella giornata di martedì prossimo. “A decorrere dall’entrata in vigore del presente decreto, la società Ilva spa di Taranto è immessa nel possesso dei beni dell’impresa ed è in ogni caso autorizzata, nei limiti consentiti dal provvedimento di cui al comma 1, alla prosecuzione dell’attività produttiva nello stabilimento ed alla commercializzazione dei prodotti ivi compresi quelli realizzati antecedentemente all’entrata in vigore del presente decreto legge per un periodo di 36 mesi, ferma restando l’applicazione di tutte le disposizioni contenute nel presente decreto legge”.
Come si evince sin troppo facilmente dal confronto dei due testi, siamo di fronte ad un’estensione retroattiva del decreto. Nessuna riscrittura, ma un nuovo atto legislativo completamente diverso dal primo, impostato su diverse basi giuridiche. Non si fornisce alcuna interpretazione o chiarimento di un punto controverso e magari mal scritto nella prima stesura, ma si introduce un nuovo testo che giustifica e sostiene la retroattività del decreto, mai enunciata prima d’ora.
Per non parlare del fatto che, come su citato, il sequestro prosegue nonostante la reimmissione dell’area a caldo in possesso dell’azienda, soltanto così formalmente preservando le decisioni della magistratura. Inoltre il nuovo provvedimento è legge (retroattiva) sul caso singolo (l’Ilva appunto), dichiarandosi di fatto in opposizione aperta a provvedimenti legittimi del giudice naturale, e quindi giustificando del tutto non solo impugnazione per anticostituzionalità, ma anche e soprattutto il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato.
Ed infatti è notizia di ieri che la Procura di Taranto sta lavorando per sollevare il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato in relazione agli interventi del governo sui provvedimenti della magistratura nei confronti dell’Ilva. La decisione, presa nei giorni scorsi, si sarebbe rafforzata dopo che la presentazione del nuovo emendamento per superare il blocco dei prodotti finiti e semilavorati dell’azienda. Il conflitto potrebbe essere sollevato dopo la conversione in legge del decreto e dopo la nuova istanza di dissequestro che l’Ilva presenterà a breve forte del nuovo intervento dello Stato. Così come non è affatto tramontata la possibilità che dal palazzo di giustizia scatti anche la questioni di incostituzionalità del decreto.
Ciò detto, a noi pare quanto mai inutile continuare a definire il decreto ‘salva-Ilva’ di dubbia costituzionalità. La legge-provvedimento varata dal governo Monti è volta ad autorizzare il gruppo Riva a proseguire la produzione di acciaio nello stabilimento di Taranto: la Procura, invece, aveva ordinato la chiusura dell’area a caldo del siderurgico per tutelare la salute dei cittadini e per perseguire i reati ambientali imputati agli azionisti e al top management dell’Ilva. Stante così le cose, siamo di fronte ad una sorta di revoca legislativa di un provvedimento giudiziario di sequestro e che, in garanzia dell’occupazione e della produzione, determina uno squarcio senza precedenti nei principi cardine dell’organizzazione dello Stato costituzionale come il rispetto della funzione giurisdizionale, il giusto processo e la separazione dei poteri.
La dittatura è una forma autoritaria di governo in cui il potere è accentrato in un solo organo, se non addirittura nelle mani del solo dittatore, non limitato da leggi, costituzioni, o altri fattori politici e sociali interni allo Stato. “L’obbedienza estrema presuppone ignoranza in colui che obbedisce; la presuppone anche in colui che che comanda; questi non ha da deliberare, da dubitare, da ragionare; non ha che da volere” (Charles-Louis de Montesquieu, Lo spirito delle leggi, 1748). Ci attendono giorni bui.
Gianmario Leone (TarantoOggi del 13-12-2012)
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