Tesi del tutto smentita dalla perizia chimico ambientale degli esperti nominati dal tribunale di Taranto. Non è un caso infatti, se la questione della contaminazione da diossine. è anche al centro di uno dei vari filoni di inchiesta aperto nel 2010 della procura di Taranto sull’Ilva. Le operazioni di ieri, come sempre, sono avvenute in accordo con il tavolo tecnico regionale. La storia, invece, iniziò come detto nel dicembre del 2008, quando la Regione Puglia dispose con un’ordinanza l’abbattimento di 1.122 capi contaminati provenienti dagli allevamenti delle masserie situate a pochi km da Taranto. E le parole del dott. Teodoro Ripa, direttore del Dipartimento Prevenzione settore veterinario ASL di Taranto, sono le stesse da quattro anni a queste parte. Ripetute con altrettanto vigore nel convegno dello scorso 3 dicembre sulle sorti del settore agroalimentare della provincia ionica, organizzato dal consigliere regionale Patrizio Mazza.
“E’ arrivato il momento di imbavagliare le industrie che inquinano o di evacuare parte della città di Taranto”. Una denuncia-provocazione che non lascia spazio ad altre interpretazioni di sorta. A Taranto si ammalano e muoiono le persone, così come gli animali. Da decenni. Nel corso dei quali è avvenuta una contaminazione dell’acqua e del suolo, oltre che della falda, di dimensioni ancora oggi difficilmente quantificabili. Una vergogna assoluta, che però non tocca minimamente le istituzioni, Governo in primis. Stesso discorso per i sindacati, visto che gli allevatori così come i mitilicoltori, non hanno alcuna tessera: dunque, non sono “degni” di essere difesi. I loro diritti non esistono. Si deve salvare a tutti i costi la filiera dell’acciaio: l’agricoltura e la mitilicoltura possono anche morire lentamente, sino all’estinzione. Non importa. Al massimo, saranno derubricati come “inevitabili” effetti collaterali. Nulla più.
Si possono inquinare i terreni così come il Mar Piccolo. Si possono mandare al macello migliaia di capi di bestiame e bruciare nei forni delle discariche migliaia di tonnellate di mitili: l’importante è che l’acciaio continui a colare a fiumi. Che il prodotto interno lordo non cali neanche di mezzo punto percentuale. Che i Riva continuino a fare profitto, alimentando i 19 stabilimenti presenti in Italia. Rifornendo la filiera della meccanica italiana di tutto l’acciaio che serve. Per tutto il resto, non c’è spazio. Dal febbraio del 2010 c’è un divieto di pascolo emanato dalla Regione Puglia nel raggio di 20 km dall’area industriale. Ed è stato deciso di evacuare il Mar Piccolo portando gli allevamenti in Mar Grande. E se gli allevatori tarantini restano senza nulla, poco male.
Se i prodotti caserecci della nostra terra scompariranno nel breve volgere del tempo, ce ne dovremo fare una ragione. Se i mitili tarantini famosi in tutto il mondo perderanno la loro qualità a fronte della diversa salinità delle acque dove saranno allevati, li mangeremo lo stesso. Prima ancora, decenni addietro, per far spazio alla grande industria che avrebbe dovuto salvarci dalla “povertà”, abbiamo distrutto decine di masserie, sradicato dalla terra migliaia di filari di vite. Negli ultimi anni, vista la crisi economica che attanaglia il mondo occidentale e il suo fallimentare sistema economico, molti studiosi ed intellettuali hanno riproposto un lento ritorno alla natura. Qui a Taranto, tra poco, non potremo più aspirare nemmeno a questo. “Se si concede alla natura nulla di più dello stretto indispensabile, la vita dell’uomo vale meno di quella di una bestia” (William Shakespeare, Stratford-upon-Avon, 26 aprile 1564 – Stratford-upon-Avon, 23 aprile 1616).
G. Leone (TarantoOggi del 13-12-12)
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