Il margine operativo lordo, dopo essersi attestato a 1,37 miliardi nel 2006, si è incredibilmente ridotto sino a giungere ai soli 12 milioni di euro del 2011. Una situazione apparentemente difficile, dunque, in particolar modo se si va ad analizzare la situazione dell’indebitamento del gruppo. Secondo il bilancio consolidato di Riva Fire infatti, nell’arco del 2012 e nei primi mesi del 2013, arriveranno a scadenza debiti finanziari a breve termine per 2,11 miliardi sui 2,79 miliardi di esposizione complessiva. Una cifra enorme se si considera, fra le altre cose, che il gruppo Riva iscrive a bilancio disponibilità liquide per soli 171 milioni oltre a titoli e depositi a breve termine per 46 milioni. In pratica, i soldi che la Guardia di Finanza ha trovato nei giorni scorsi andando ad analizzare il settore economico del gruppo. E’ sin troppo chiaro, dunque, che più di qualcosa non torna.
Non è un caso infatti, se fonti finanziarie fanno sapere che il gruppo dispone di un abbondante riserva di liquidità stoccata (termine ben noto nel campo della siderurgia) soprattutto nelle holding estere tra Lussemburgo e Olanda: quindi, non ci dovrebbero essere problemi per il gruppo ad onorare le scadenze previste dal calendario. Inoltre, il colosso siderurgico guidato da Emilio Riva può ancora contare su una dotazione patrimoniale molto consistente, visto che a fine 2011 il patrimonio netto ammontava a ben 4,22 miliardi. I soldi reali, quindi, ci sono: ma sono da tempo all’estero. Cosa del tutto scontata. Né può far dormire soldi tranquilli l’ammontare del patrimonio netto: perché è praticamente certo che, ad esempio nel caso delle proprietà immobiliari, il tutto sia stato per tempo intestato a società e non certo alle singole figure della famiglia Riva. La situazione resta delicata, nonostante le banche creditrici (la più esposta sarebbe Intesa San Paolo, seguita a grande distanza dalla Popolare di Bergamo del gruppo UBI B.) si dicano tranquille.
Stante così le cose, ci sorge spontanea una domanda: ma un gruppo industriale che possiede così “poca” liquidità e deve inoltre rispettare le scadenze derivante dai debiti finanziari, dove andrà a trovare le risorse economiche necessarie (quasi 4 miliardi di euro) per risanare gli impianti di Taranto nei tempi previsti dall’AIA-decreto legge (3 anni al massimo)? Certamente, guardando nel suo complesso lo stato finanziario del gruppo, si capisce molto meglio il perché per il gruppo Riva la priorità è ed è sempre stata quella di continuare a produrre.
Postulato imprescindibile per incamerare quella liquidità necessaria da re-investire nei lavori di risanamento e bonifica degli impianti. Ed in questo scenario, troverebbe conferma quanto scrivemmo una decina di giorni fa in merito all’apertura, per quanto concerne il settore societario, a cui starebbero pensando i Riva: ovvero far entrare nella compagine azionaria, con una quota di minoranza, il principale fornitore brasiliano di minerale ferroso al mondo. Si tratta della Vale S.A. (fino al 2007 denominata Companhia Vale do Rio Doce, in portoghese “Compagnia della valle del Rio Doce”, comunemente abbreviato in CVRD), il gruppo minerario brasiliano che opera nella produzione di minerale di ferro di cui è il maggior produttore ed il maggior esportatore al mondo, con la quale l’Ilva ha da tempo in essere una join-venture (accordi di collaborazione tra imprese diverse).
L’operazione economica, qualora andasse in porto, costituirebbe certamente un vantaggio strategico per entrambe le società: l’una si assicurerebbe le forniture di materia prima a prezzi di favore, l’altra canalizzerebbe una parte della propria produzione, che attualmente risulta in eccesso rispetto alla domanda a causa della frenata delle acciaierie brasiliane. Ma al di là di queste operazioni economico-finanziare, il gruppo Riva fa leva su un altro aspetto di cui abbiamo già parlato: un corposo aiuto che potrebbe arrivare da parte della Cassa Depositi e Prestiti (società per azioni finanziaria italiana, partecipata per il 70% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e per il 30% da diverse fondazioni bancarie). Prestito che, una volta tramutato in legge il decreto ‘salva-Ilva’, potrebbe diventare presto realtà.
Inoltre, così come garantito mesi addietro dal vice presidente della Commissione europea e responsabile per l’Industria Antonio Tajani, l’Ilva avrà anche la possibilità di accedere a numerosi finanziamenti dell’Ue, come il Fondo sociale e Horizon 2020 per l’innovazione e la ricerca – e, ovviamente, ai fondi della Banca europea per gli investimenti (BEI): il come però, non è ben chiaro, visto che i prestiti della BEI sono destinati a quelle aziende che costruiscono le loro strutture utilizzando le migliori tecnologie stabilite dagli standard europei: e tra costruire e risanare c’è di mezzo il mare. E non bisogna dimenticare che entro giugno 2013, la Commissione europea intende adottare un piano d’azione per il settore dell’acciaio “che predisponga misure concrete per la competitività”.
Ciò detto, colpisce un dettaglio del decreto firmato ieri dal presidente della Repubblica: si prevede che il ministro dell’Ambiente “può autorizzare, in sede di riesame dell’autorizzazione integrata ambientale, la prosecuzione dell’attività produttiva per un periodo di tempo determinato non superiore a 36 mesi”. L’indicazione temporale è una novità rispetto al decreto legge del governo in cui non si faceva riferimento a scadenze. Per altri tre anni, dunque, l’Ilva potrà continuare a produrre. Diciamo sino al 31 gennaio 2015. E, guarda caso, dal 1 gennaio 2016, entreranno in vigore le nuove direttive dell’Unione Europea sulle emissioni industriali. Come si evince facilmente, dunque, il cerchio si è già chiuso. E i conti, oltre ad essere stati fatti per tempo, sono volati via. E difficilmente torneranno indietro.
Gianmario Leone (TarantoOggi del 4-12-2012)
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