Ilva, dal Governo un decreto contro Taranto

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TARANTO – E’ arrivato come previsto ieri il via libera dal Consiglio dei ministri al decreto legge per salvare l’Ilva del gruppo Riva. Un decreto, questo è bene rimarcarlo sin da subito, che ha avuto l’appoggio da parte di tutti gli enti locali (anche se c’è chi tenta di salvarsi in calcio d’angolo dichiarando di dover leggere ancora il testo) e dei sindacati che ieri hanno festeggiato un evento storico, che potrebbe riportare indietro questo paese ad anni che, almeno dal punto di vista istituzionale, eravamo certi di esserci lasciati alle spalle. Perché quanto uno Stato toglie legittimità alle azioni della magistratura, superandole e sconfessandole, è inutile girarci troppo attorno: siamo ad un passo dalla dittatura. O se il termine vi disturba troppo, diciamo che siamo in presenza di un vero e proprio colpo di mano (Stato) nei confronti di un intero territorio. Per non parlare del fatto che lo Stato italiano, come se sino ad oggi nulla fosse accaduto, ha il coraggio di riaffidare degli impianti industriali posti sotto sequestro perché hanno causato e causano nella popolazione fenomeni di malattia e morte, ad una società i cui vertici si dividono tra arresti domiciliari e latitanza.

Magistratura “cancellata”

Del resto, nel testo varato ieri si legge testualmente “che la società Ilva abbia la gestione e la responsabilità della conduzione degli impianti e che sia autorizzata a proseguire la produzione e la vendita per tutto il periodo di validità dell’autorizzazione integrata ambientale”. Dunque, tutto quello che ha fatto la magistratura sino ad oggi, per il nostro governo, semplicemente non esiste. Ed è davvero incredibile come proprio nel giorno del decreto, il gip Todisco rispedisca al mittente la richiesta di dissequestro degli impianti dell’area a caldo, azione giudicata dall’Ilva imprescindibile per iniziare ad applicare le prescrizioni dell’AIA. Assunto privo di ogni fondamento, visto che la Procura non ha mai negato all’Ilva di utilizzare gli impianti ai fini del loro risanamento. Anzi, il senso del sequestro è proprio quello. Semplicemente, ha vietato di proseguire nell’attività produttiva, perché inquinante e altamente impattante da un punto di vista ambientale e sanitario.

Ciò nonostante, l’Ilva ha fatto spallucce continuando a produrre: evento che ha costretto la Procura ad attuare un nuovo sequestro, questa volta sul materiale prodotto negli ultimi quattro mesi, ovvero a partire dal sequestro dell’area a caldo dello scorso 26 luglio. Ma anche questo non è stato “capito” dal governo: tant’è che il ministro dell’Ambiente Corrado Clini crede ancora oggi che il sequestro riguardi l’intera area a freddo. Con l’Ilva che, vista la confusione generale, ha pensato bene di attuare l’ennesima rappresaglia contro gli operai, mettendo in libertà i 5000 operai dell’area a freddo e dichiarando l’imminente chiusura dello stabilimento di Taranto e di tutti gli altri impianti Ilva presenti in Liguria e in Piemonte. Ma che il governo sia in confusione totale, lo dimostra anche il fatto che nel testo del decreto si legge che qualora non venga rispettato il piano di investimenti necessari alle operazioni di risanamento, sarà introdotto un meccanismo sanzionatorio che si andrà ad aggiungere al sistema di “controllo” già previsto dall’AIA

Leggete bene: “I provvedimenti di sequestro e confisca dell’autorità giudiziaria non impediscono all’azienda di procedere agli adempimenti ambientali e alla produzione e vendita secondo i termini del’autorizzazione”. Del resto, trasformando un atto amministrativo come l’AIA in legge, il governo sa che la magistratura, che ha il compito di far applicare e rispettare le leggi, è quanto meno messa in un angolo. Non è un caso se già ieri il governo ha ribadito come il tribunale del Riesame che il 6 dicembre si dovrà esprimere sul dissequestro della produzione degli ultimi quattro mesi, dovrà “tenere conto” del decreto legge. Una specie di velata minaccia, l’ennesima.

Una multa stravagante

Nel decreto si legge inoltre che in caso di inadempienze per l’Ilva “restano tutte le sanzioni già previste e in più introdotta la possibilità di una sanzione sino al 10% del fatturato annuo dello stabilimento”. “E’ una condizione di garanzia” ha affermato il ministro dell’Ambiente. Il decreto prevede anche un “Garante della vigilanza sull’attuazione degli adempimenti ambientali e di tutte le altre disposizioni del decreto, che sarà nominato con un successivo provvedimento”. Clini ha spiegato che “sulla sanzione, qualora l’azienda non rispettasse le prescrizioni – e le prescrizioni sono misure puntuali sugli impianti delle aree a caldo e da novembre di quest’anno fino a 2014 cambieranno strutturalmente le produzione dell’area a caldo – nel caso in cui venisse accertato che il piano di interventi dell’impresa non venisse attuato, potranno intervenire oltre alle sanzioni amministrative ordinarie, anche sanzioni aggiuntive fino al 10% del fatturato annuo”. Una condizione di garanzia, dunque: ma per chi? Fatti due conti, al gruppo Riva converrebbe tirarla per le lunghe e pagare una multa che di certo costerebbe molto meno rispetto agli oltre tre miliardi di euro che l’azienda dovrà andare a spendere nei prossimi due anni.

Il Garante misterioso

Questo fantomatico Garante “potrà proporre le misure idonee, tra le quali anche provvedimenti di amministrazione straordinaria” in caso di chiare criticità. Il garante, che dovrà agire in totale indipendenza, potrà anche decidere di “suggerire” al presidente del Consiglio misure che prevedano di fatto l’introduzione di meccanismi di gestione dell’impresa sostitutivi, in considerazione dell’interesse pubblico prevalente. “Il garante deve essere persona di indiscussa indipendenza, competenza ed esperienza e sarà proposto dal ministro dell’Ambiente, dal ministro dell’Attività Produttive, e della Salute e sarà nominato dal presidente della Repubblica” ha spiegato ieri il sottosegretario Antonio Catricalà.

Ci vengono i brividi a pensare su chi ricadrà la scelta. Sanzioni di un certo peso, almeno secondo il ministro per lo Sviluppo Corrado Passera: “Abbiamo introdotto interventi possibili sulla proprietà stessa che potrebbero togliere enorme valore a quella proprietà: se non fa quello che la legge prevede, vede il suo valore scendere fino al punto di perderne il controllo di fronte a comportamenti non coerenti”. Che a pronunciare questa specie di minaccia sia uno degli uomini politici storicamente più vicini al gruppo Riva, è cosa di cui tener conto: eccome. Ciò detto, ci piacerebbe sapere se il governo ha ricevuto dal gruppo Riva la garanzia che porterà avanti gli investimenti per risanare e bonificare gli impianti dell’Ilva di Taranto. In parole povere, se qualcuno abbia o meno preso visione del piano industriale dei prossimi anni: ne dubitiamo alquanto.

La salute non esiste

Intanto, nel decreto varato ieri, non viene minimamente presa in considerazione la situazione sanitaria della città di Taranto. non si capisce infatti in che modo il provvedimento garantirà il rispetto dell’ambiente e della salute, come annunciato dal governo. Magari nel testo definitivo si riuscirà ad infilare qualcosa nel merito, ma l’unico credo a cui risponde l’intervento del governo, è la continuità dell’attività produttiva del siderurgico tarantino: tutto il resto, semplicemente, non esiste. E potrebbe essere proprio questa la falla contro la quale la Procura di Taranto andrà a colpire il decreto del governo. Perché il ricorso alla Corte Costituzionale è scontato. Meno lo è l’esito.

E la città resta a guardare

Ma al di là di tutte queste considerazioni nel merito di un provvedimento, che anche se scritto magistralmente, resta comunque un atto discriminatorio e assolutamente inaccettabile, la nostra riflessione si spinge oltre. Perché nonostante tutto questo, in città non si muove una foglia. Un’azione del genere infatti, avrebbe dovuto scatenare una sommossa popolare generale; avrebbe dovuto scuotere le coscienze di ogni singolo cittadino; avrebbe dovuto unire un’intera città a difesa dei diritti alla salute e alla vita, che vengono prima di ogni altro diritto, anche di quello al lavoro. Ed invece, nulla. L’unica cosa che resta in piedi, è la manifestazione, lontana, del 15 dicembre, nella quale fare affluire movimenti e associazioni senza bandiere.

E c’è chi in queste ore sta anche proponendo di spostare l’iniziativa a Roma. Invece di difendere la nostra città, la nostra terra in loco, di riprenderci ogni singolo millimetro di quanto ci appartiene, qualche genio sta pensando di andare a “bloccare” la Capitale. Come se i “No-Tav” difendessero la loro valle andando a Roma e non lottando ogni giorno in quei meravigliosi boschi. Di questo passo, rischiamo seriamente il baratro: definitivo. Il tempo per difendere i nostri diritti e la nostra terra è adesso: anche attendere un sol giorno di più potrebbe rivelarsi fatale. Per tutti noi. E per tutti coloro i quali verranno dopo di noi.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 1 dicembre 2012)

 

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