TARANTO – Il decreto “salva-Ilva” (perché solo in questo modo lo si può chiamare) arriverà questa mattina in Consiglio dei ministri. Ad annunciarlo il presidente del Consiglio Mario Monti che al termine dell’incontro romano di ieri a Palazzo Chigi, ha sottolineato il carattere di urgenza del provvedimento. Più che un vertice, quello di ieri è sembrato un ritrovo tra amici, chiamati a salvare l’azienda di un “vecchio amico”: erano infatti presenti oltre 120 persone, fra governo, sindacati, rappresentanti dell’azienda e amministratori locali.

Certo, fa una certa impressione (anche se forse sarebbe meglio parlare di ribrezzo vero e proprio) osservare come ancora una volta il destino di questa città, venga affidato a personaggi i cui nomi e cognomi figurano nelle centinaia di intercettazioni telefoniche trascritte dalla Guardia di Finanza, nell’inchiesta “Ambiente svenduto”. Gente che dovrebbe semplicemente dimettersi ed essere accompagnata al di là del ponte di Pietra, con un biglietto di sola andata con destinazione località il più possibile lontano da Taranto. Ed invece, sono ancora lì, aggrappati alle loro poltrone, sorridenti nelle stanze del potere, convinti di vincere (farla franca) ancora una volta. Sul tavolo dell’incontro di ieri, il contenuto del decreto con cui lo Stato italiano consentirà “la riapertura dell’impianto siderurgico pugliese e la conseguente ripresa dell’attività”. Eppure, a queste latitudini, non risulta che l’Ilva sia stata chiusa. Né che abbia mai cessato la sua attività produttiva.

Il decreto, infatti, servirà proprio per mantenere aperto il siderurgico tarantino e consentire ad esso di continuare la sua attività produttiva. Su questo, sono tutti d’accordo. Come già anticipato ieri, il provvedimento che oggi sarà in Consiglio dei ministri, si pone l’obiettivo di bilanciare due istanze contrapposte, che il ministro Clini ha così sintetizzato: “tenere assieme la protezione della salute degli abitanti di Taranto e la difesa di migliaia di posti di lavoro senza i quali il quadro sociale può diventare drammatico”. Come questo dovrà avvenire, però, non è dato sapere. L’ultima bozza del decreto in fase di stesura circolata ieri a Palazzo Chigi prevede tra l’altro, “la vigilanza di un garante sull’attuazione del provvedimento, assistito da un comitato di lavoratori dello stabilimento e la perdita di efficacia di tutti i provvedimenti di sequestro incompatibili con l’Autorizzazione integrata ambientale”. Attorniato da tanti amici, il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante anche ieri non si è lasciato sfuggire l’occasione per continuare a lanciare le solite minacce attaccando la Procura di Taranto.

“I provvedimenti della magistratura stanno provocando gravi ripercussioni sull’occupazione, il quadro rischia di peggiorare. Anche Genova avrà problemi ed è destinata alla chiusura”. Per Ferrante “il 6 dicembre è la data limite per il dissequestro dell’impianto”: guarda caso la data in cui il Riesame si esprimerà in merito al ricorso presentato dall’azienda sul sequestro di lunedì operato dalla Procura, che ha bloccato la produzione degli ultimi quattro mesi perché avvenuta trasgredendo la legge, visto che l’area a caldo dallo scorso 26 luglio è posta sotto sequestro e l’Ilva non aveva e non ha alcuna facoltà d’uso per produrre. Per ritorsione, o sarebbe meglio dire per rappresaglia, l’Ilva ha immediatamente chiuso gli impianti dell’area a freddo, mandando in “libertà” i 5000 operai impiegati nell’area. Qualcuno di buona volontà, dunque, informi il ministro Clini e i suoi sodali, che la magistratura non ha affatto sequestrato l’area a freddo dell’Ilva, né i suoi impianti. Ma il prodotto che sarebbe dovuto essere lavorato in quell’area e che poi avrebbe dovuto raggiungere gli altri stabilimenti Ilva presenti in Italia.

Davvero non riusciamo a comprendere come un ministro, peraltro dell’Ambiente, possa essere così disinformato e dichiarare cose assolutamente non vere in un’informativa alla Camera dei Deputati. Anche ieri, Clini ha ripetuto che “la magistratura ha creato le condizioni per la chiusura degli impianti, ovvero le condizioni per rendere impossibile il piano di risanamento ordinato dal governo. Quello che ci aspettavamo che avvenisse da lunedì – continua Clini – era l’avvio degli interventi da parte dell’azienda, e invece c’è stato il sequestro dell’area a freddo”. Ridicole, come sempre, le uscite dei segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, che invece di preoccuparsi dei loro “degni” rappresentanti in riva allo Ionio e del loro mancato operato negli ultimi decenni, continuano a sponsorizzare ogni intervento possibile da parte dello Stato pur di salvare la produzione dell’acciaio dell’Ilva. Per fortuna, gli operai Ilva arrivati a Roma, hanno lanciato messaggi incoraggianti, sintomo di una lenta ripresa di coscienza collettiva operaia.

Erano circa 300 e sono arrivati da Genova, Taranto, Novi Ligure, Racconigi, urlando slogan contro una “classe politica di ladri”, che “non da risposte e sa solo rubare”. “Siete voi la rovina dell’Italia: siamo qui per il nostro lavoro e per il nostro futuro, che voi ci state rubando”. I manifestanti hanno intonato cori contro Monti, il ministro Fornero ed il gruppo Riva. Durante l’incontro, il ministro della Salute Renato Balduzzi ha riferito che a giorni dovrebbe iniziare la realizzazione dell’osservatorio sulla salute a Taranto, prestando particolare attenzione ai rischi che corrono bambini e donne incinte: staremo a vedere. Intanto, secondo indiscrezioni, quando arriverà la richiesta di dissequestro da parte del governo, la Procura di Taranto potrebbe ricorrere alla Corte Costituzionale. Un atto doveroso, visto anche quanto scritto nel comunicato stampa di Palazzo Chigi, che conferma una volta di più come “l’AIA prevede che le procedure e i tempi del risanamento non interferiscano con l’esercizio ordinario dell’attività industriale”. A scapito di Taranto, del suo ambiente, della salute dei cittadini. E del futuro di un’intera comunità.

Gianmario Leone (TarantoOggi del 30-11-2012)

 

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