Ilva, la partita è all’inizio – Giovedì tutti a Roma

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TARANTO – Dopo il sequestro preventivo dell’intera area a caldo dello scorso 26 luglio, arriva un altro “26” da ricordare per l’Ilva di Taranto. Nuovi arresti, avvisi di garanzia e sequestro preventivo dei prodotti finiti e/o semilavorati destinati alla vendita e al trasferimento in altri stabilimenti del gruppo, che costituiscono tutta la produzione degli ultimi quattro mesi, stoccata nell’ex yard Belleli e nei parchi della zona portuale. Migliaia di lastre di acciaio e coils, grossi cilindri di materiale finito pronti per essere spediti alle industrie: tutta merce che non potrà però essere commercializzata perché si tratta di prodotti realizzati in violazione della legge, visto che la loro produzione è avvenuta attraverso l’utilizzo di impianti per cui non era prevista la facoltà d’uso per tale scopo. Sequestro preventivo che riguarderà anche le eventuali produzioni future e che di fatto pone uno stop definitivo all’attività del siderurgico che dal 26 luglio è ugualmente andata avanti ignorando l’ordine della magistratura.

E così, come peraltro ampiamente lasciato intendere dall’Ilva negli scorsi giorni, il gruppo Riva ha deciso di giocare l’ultima carta a sua disposizione: la rappresaglia totale. Nel mentre era in corso un incontro con i sindacati metalmeccanici, l’azienda diramava una nota in cui s’informava della “cessazione di ogni attività nonché la chiusura dello stabilimento di Taranto e di tutti gli stabilimenti del gruppo che dipendono, per la propria attività, dalle forniture dello stabilimento di Taranto”: Genova, Novi Ligure, Racconigi, Marghera e Patrica. L’azienda ha anche disposto la sospensione di tutte le attività lavorative negli impianti che non sono sottoposti a sequestro giudiziario (l’area a freddo), con i badge tutti disattivati (i tornelli elettronici di ingresso nello stablimento) tranne per lo staff e i dipendenti delle officine, a partire dal turno serale di ieri, con i sindacati che invece hanno invitato gli operai a recarsi sul posto di lavoro, anche per quanto concerne il turno di questa mattina.

La decisione colpirebbe direttamente oltre 5000 operai, mentre oggi pomeriggio si dovrebbe svolgere un nuovo incontro tra direzione e sindacati per fare il punto su una situazione che rischia di precipitare definitivamente da un momento all’altro. Intanto ieri sera, in attesa degli eventi, i sindacati hanno deciso di occupare l’azienda con un presidio permanente. Certo, è quanto meno “strano” che l’Ilva annunci di voler chiudere tutto, ma non annuncia nessun provvedimento per l’area a caldo e i lavoratori dei reparti posti sotto sequestro.

Perché chi pensa che la vicenda dell’Ilva abbia segnato ieri un punto di non ritorno, rischia di prendere un grosso abbaglio. Così come chi pensa che il gruppo Riva sia allo sbando e l’azienda prossima alla chiusura. Perché la partita, da ieri, si è spostata su altri tavoli, dove la posta in palio è ben più pesante. E dove da tempo si sono seduti, in attesa dell’arrivo degli altri giocatori, il gruppo Riva e il governo italiano, nelle figure del ministero dell’Ambiente e dello Sviluppo Economico. Perché la chiave di volta di tutto, è adesso nell’AIA attraverso la quale l’Ilva è stata autorizzata all’esercizio dell’attività produttiva dal decreto del Ministero dell’Ambiente del 26 ottobre scorso. Riesame dell’AIA che non a caso venne richiesto proprio da Regione Puglia, Comune e Provincia di Taranto, oltre che dai sindacati confederali, la scorsa primavera. Perché tutti avevano intuito che la Procura di Taranto non si sarebbe fermata e la situazione rischiava di degenerare in uno tsunami devastante. E perché tutti sapevano che l’AIA concessa il 4 agosto del 2011, altro non era che un documento con il quale si autorizzava l’Ilva a continuare sulla sua strada senza intaccarne minimamente l’attività produttiva. Ovvero quella logica del profitto da cui larghi strati delle istituzioni hanno tratto beneficio e si sono ben guardati dall’ostacolare.

Non è un caso, quindi, se l’Ilva (oltre a continuare a dichiarare l’insostenibile come la conformità delle sue emissioni, l’insussistenza di una sua responsabilità sull’eccesso di mortalità dovute alla sua attività e l’estraneità a tutte le contestazioni formulate dalla autorità giudiziari) ritiene il nuovo provvedimento di sequestro “in radicale e insanabile contrasto rispetto al provvedimento autorizzativo del Ministero dell’Ambiente”. Provvedimento avverso al quale si proporrà nuova impugnazione e nell’attesa della definizione del giudizio di impugnazione, si ottempererà all’ordine impartito dal GIP di Taranto. “Ciò comporterà in modo immediato e ineluttabile l’impossibilità di commercializzare i prodotti e, per conseguenza, la cessazione di ogni attività nonché la chiusura dello stabilimento di Taranto e di tutti gli stabilimenti del gruppo che dipendono, per la propria attività, dalle forniture dello stabilimento di Taranto”.

A stretto giro di posta, il ministro dell’Ambiente Corrado Clini, gioca su per giù la stessa carta. Dichiarando quanto segue: “Mi auguro che questa iniziativa non sia conflittuale con l’AIA, l’unico strumento per risanare l’attività dello stabilimento. Non sono disponibile a subire una situazione che avrebbe effetti terribili: sono preoccupato dai futuri effetti ambientali gravissimi e sociali devastanti”. Al tavolo si aggiunge anche Confindustria, che parla di “vero e proprio accanimento giudiziario nei confronti dell’azienda: la chiusura dell’Ilva sarebbe un evento gravissimo per tutto il sistema industriale italiano”. E così, in tarda serata si apprende che il Governo ha deciso di convocare a Palazzo Chigi, annunciandolo via twitter (idea saggia visti i tempi che corrono con intercettazioni e mail), i sindacati e gli enti locali per giovedì alle 15. La partita, dunque, è ancora lungi dall’essersi conclusa. Perché al di là di tutto, l’obiettivo è sempre lo stesso: salvare la produzione dell’acciaio griffato Ilva, costi quel che costi. Magari attraverso un decreto legge ad hoc. Può sembrare un paradosso, ma non lo è: in questi lunga vicenda che si trascina da oltre quattro mesi, siamo ancora all’inizio.

Gianmario Leone (TarantoOggi del 27-11-2012)

 

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