Motivo alla base di tale previsione, la mancanza di materie prime che a dire dell’azienda “comporterebbe gravissimi rischi per la sicurezza”: a sostenerlo é il presidente del Cda dell’Ilva Bruno Ferrante in persona, che una volta ricevuto l’ok da parte dei tecnici del ministero (almeno così spera l’azienda), presenterà in Procura l’istanza con richiesta di dissequestro degli impianti, presupposto giudicato imprescindibile dall’azienda per avviare i lavori di risanamento previsti nell’AIA. Un escamotage davvero ridicolo, visto che il sequestro prevede la non facoltà d’uso per l’utilizzo degli impianti in merito all’attività produttiva, non certamente il divieto per l’azienda di predisporre ed avviare i lavori di risanamento tanto “promessi”.
Tornando al problema delle materie prime, la questione è molto semplice e deriva dall’applicazione delle disposizioni dei custodi giudiziari, in ordine allo scarico del minerale dal V sporgente del porto di Taranto: lo stop – la direttiva dei custodi dello scorso 7 novembre, finalizzata a contenere le emissioni inquinanti dello stabilimento derivanti dallo spolverio di minerali depositati dal vento sulla città, limita a 15000 tonnellate gli sbarchi di minerali in uso all’Ilva o comunque ad approvvigionamenti non superiori ai 15 giorni di giacenza – secondo l’azienda comporterebbe una fermata degli impianti non in sicurezza (come invece prevedono l’ordinanza del GIP Patrizia Todisco del 25 luglio e il verdetto del tribunale del Riesame dell’8 agosto) con conseguente “esposizione a gravissimi rischi di incidente rilevante e danni irreparabili agli impianti dell’area a caldo dello stabilimento”. Nelle lettera inviata ieri da Ferrante ai magistrati, si legge anche che “la verifica dell’applicazione della disposizione dei custodi allo sbarco delle materie prime, evidenzia la palese incompatibilità delle stesse con i programmi operativi dello stabilimento per il periodo in esame e noti ai custodi”.
Il provvedimento a cui si fa riferimento, è appunto quello datato 7 novembre dopo l’ennesimo sopralluogo effettuato dai custodi, che stabilì il divieto di scarico di minerali nella misura superiore alle 15 mila tonnellate, con gli altiforni attualmente in funzione (il 2, il 4 e il 5) che consumano invece circa 50 mila tonnellate di materie prime al giorno. “E’ del tutto evidente che l’applicazione della disposizione dei custodi giudiziari allo sbarco delle materie prime, determinerà effetti devastanti per l’Ilva, scenario questo già comunicato verbalmente agli stessi”. Nel verbale si leggeva anche che “non saranno concesse autorizzazioni straordinarie per lo scarico di altri materiali che abbiano giacenze superiori alle due settimane e per quantitativi che oltrepassino la misura stabilita”. Proprio tra la fine di ottobre e i primi del mese corrente, fu impedito lo scarico di olivina e “carajas”, minerali utili per la carica dell’agglomerato.
Ma evidentemente, ancora una volta, all’Ilva “sfugge” l’essenza stessa del sequestro preventivo degli impianti e di tutti i provvedimenti sin qui presi dai custodi giudiziari: ovvero la fermata e lo spegnimento di alcuni impianti per interrompere immediatamente le emissioni diffuse e fuggitive prodotte dagli impianti dell’area a caldo e che generano nella popolazione fenomeni di malattia e morte. Dunque, è scontato che i provvedimenti dei custodi risultino in totale incompatibilità i programmi operativi dell’Ilva che continua volutamente ad ignorare l’azione della magistratura. Inoltre, il provvedimento sulle materie prime, pesa anche sulle casse del gruppo Riva.
“E’ solo il caso di sottolineare – scrive il presidente Ferrante – che dal 12 novembre, data di comunicazione delle disposizioni dei custodi giudiziari, ad oggi sono stati accumulati maggiori oneri di Ilva per le controstallie per 850 mila dollari”. Nella lettera si parla anche dei costi di gestione: “Le modalità di sbarco di materiali – si legge nella conclusione della lettera – secondo le prescrizioni dei custodi, calcolate in accordo con le movimentazioni navi, comportano una previsione di costo aggiuntivo per le attese navi pari a 12,37 milioni di dollari. A questa cifra sono da aggiungere i costi per movimentazione aggiuntiva delle navi, pari a 50 mila dollari per ciascuna movimentazione, costi dovuti anche all’utilizzo dei rimorchiatori, ormeggiatori e piloti. E’ prevedibile – conclude Ferrante -, visti i lunghi tempi di sosta che deriverebbero dalla applicazione delle disposizioni dei custodi, che gli armatori possano chiedere al gestore la detenzione che comporta un costo maggiore rispetto alla controstallia”.
Ma questi sono problemi che non interessano né la Procura, né il GIP, né i custodi giudiziari, né tanto meno la popolazione tarantina. Perché ciò che unicamente conta è spezzare la grave ed attualissima situazione di emergenza ambientale e sanitaria, imputabile alle emissioni inquinanti, convogliate, diffuse e fuggitive, dello stabilimento ILVA s.p.a. Il sequestro preventivo degli impianti è infatti unicamente funzionale alla interruzione delle attività inquinanti. Perché come scriveva il GIP nella sua ordinanza, “non un altro bambino, non un altro abitante di questa sfortunata città, non un altro lavoratore dell’ILVA, abbia ancora ad ammalarsi o a morire o ad essere comunque esposto a tali pericoli, a causa delle emissioni tossiche del siderurgico”. Onde evitare ancora inutili dubbi, si ricorda che solo la compiuta realizzazione di tutte “le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo” individuate dai periti chimici potrebbe legittimare l’autorizzazione – previa attenta ed approfondita valutazione, da parte dei custodi giudiziari, sotto il profilo della prevenzione ambientale, delle misure eventualmente adottate – ad una ripresa della operatività dei predetti impianti”. Più chiaro di così, proprio non si può.
Gianmario Leone (TarantoOggi del 16-11-2012)
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