Dai veleni dell’Ilva alla voglia di riscatto. Intervista a Paolo Pisanelli, regista del film “Storie di Taranto”
TARANTO – Martedì scorso, Paolo Pisanelli era a Firenze, ospite del Festival dei Popoli, per presentare il suo “work in progress”: un film documentario sui veleni di Taranto che dovrebbe essere pronto nel marzo del 2013. Nel frattempo, il regista leccese continuerà a fare tappa nel capoluogo ionico in cerca di volti, storie, immagini, testimonianze. Sono tanti, infatti, i tasselli da mettere insieme per raccontare il dramma di una città al collasso. Una cronaca che vede la gente comune, con le sue angosce e le sue speranze, come autentica protagonista. La nuova sfida di Pisanelli, da sempre legato al cinema del reale, è coerente con un percorso che lo ha portato a confrontarsi con altre realtà al limite.
Lei è nato a Lecce ed ha vissuto per diversi anni fuori prima di far ritorno nel Salento. Come si è avvicinato alle vicende tarantine?
«E’ da quindici anni che faccio film documentari ed ho sempre posato il mio sguardo sulle città, soprattutto su quelle che vivono situazioni critiche come Genova durante il G8 del 2001 e L’Aquila dilaniata dal terremoto nel 2009. Taranto per me era una realtà sconosciuta ma molto affascinante. Ho cominciato le mie riprese il 2 agosto scorso, quando c’è stata la prima importante iniziativa del comitato “Cittadini e lavoratori liberi e pensanti” (l’irruzione dell’Apecar, in piazza della Vittoria durante una manifestazione sindacale, ndr). Da allora ci sono tornato più volte seguendo anche i cortei organizzati nel quartiere Tamburi. Il più bello, secondo me, è stato quello tenuto la mattina del 13 ottobre, perché animato dalla presenza di tanti bambini, e conclusosi con un girotondo gioioso».
Che idea si è fatto della città?
«Dall’inizio mi sono reso conto di essere capitato in una situazione estremamente conflittuale, dove in gioco ci sono elementi importanti come la salute e il lavoro. Taranto, come L’Aquila, è lo specchio dell’Italia: il risultato delle peggiori scelte politiche che si potessero fare. E’ una città che paga le conseguenze di un modello di sviluppo industriale completamente in conflitto con l’ambiente naturale e la salute, che tutti hanno sostenuto finché hanno potuto. Taranto ha incominciato a dire basta ai veleni dell’Ilva quando è intervenuta la magistratura. Mi ha fatto riflettere il mea culpa dei cittadini e degli stessi operai che hanno ammesso di avere tenuto gli occhi chiusi per troppo tempo. La situazione sembra disperata ma Taranto non ha solo una bellezza perduta. C’è una bellezza, ancora attuale, che merita di essere valorizzata. Questa città deve trovare anche altri argomenti per far parlare di sé a livello nazionale».
Quali sono gli elementi che potrebbero contribuire al riscatto di un territorio così ferito?
«E’ essenziale una maggiore coesione tra i cittadini. Noto un’eccessiva frammentazione, anche tra gli stessi ambientalisti. Ci si sparpaglia in tanti gruppetti. Finora ho visto delle belle manifestazioni, mai troppo partecipate però. La città appare un po’ assente, non reagisce come dovrebbe, come se il problema dell’inquinamento non la riguardasse. Ciò che serve, invece, è un’azione forte e collettiva. Bisogna ricostruire un’identità politica e pensante, recuperare il senso di appartenenza, manifestare in prima persona, senza più delegare ad altri. Non ci si può svegliare solo quando la malattia o la morte colpisce un componente della propria famiglia. Ognuno deve dare tutto ciò che può per favorire la rinascita di Taranto. Io, con questo film, cercherò di dare il mio contributo».
Alessandra Congedo per InchiostroVerde
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