TARANTO – Anche se molto lentamente, i nodi stanno finalmente venendo al pettine. Tutto quello che abbiamo denunciato per anni nel silenzio colpevole e consapevole dei tanti, tantissimi, che oggi rivendicano un ruolo che stona con il loro passato e che per questo non può e non potrà mai rendere credibile e disinteressato il loro operato, si sta lentamente realizzando. Per questo, così come ieri non ci ha affatto stupiti la notizia della cassa integrazione annunciata dall’Ilva per gli operai dei reparti dell’area a freddo, non ci sorprende quanto scritto dal Gruppo Riva nella lettera spedita al ministero dell’Ambiente in merito alle valutazioni sulle prime prescrizioni del riesame dell’AIA, concessa all’Ilva il 4 agosto del 2011. Del resto, se sin dal primo momento abbiamo osteggiato fortemente il riesame dell’autorizzazione integrata ambientale, non era certo per una mera questione di principio.

Il nostro, semmai, era un ragionamento logico, molto semplice e per questo accessibile a tutti. Ma la stragrande maggioranza dei soggetti in campo (istituzioni, sindacati, comitati cittadini e associazioni ambientaliste, seppur con rare eccezioni), ha continuato a non voler vedere. Fingendo di dimenticare come le perizie chimica ed epidemiologica portate come prova all’interno dell’incidente probatorio nell’inchiesta sul disastro ambientale doloso prodotto dall’Ilva e dal Gruppo Riva nella sua gestione, fossero la dimostrazione inconfutabile di come che il siderurgico tarantino fosse decisamente al di fuori del rispetto delle prescrizioni dell’AIA concessa lo scorso agosto. Contro le quali aveva anche più volte ricorso al TAR di Lecce, perché ritenute troppo stringenti e quindi un intoppo all’attività produttiva dell’azienda.

Sarebbe dovuto bastare questo semplicissimo dettaglio per far intuire a tutte le menti “raffinatissime” e “illuminate” della nostra città, che anche solo pensare di rilasciare una nuova AIA con prescrizioni ancora più “dure” ad un’azienda vetusta come l’Ilva e per giunta sotto sequestro giudiziario con i proprietari e i capi reparto delle aree sequestrate indagate, fosse al di fuori di ogni ragionamento ragionevole. Non solo. Perché tutti sapevano perfettamente che la nuova AIA non avrebbe mai previsto la non facoltà d’uso degli impianti: dunque, sarebbe stato un provvedimento in aperto conflitto con l’azione della magistratura. Ma nonostante questo, a cominciare dal ministero dell’ambiente, si è voluto andare avanti lo stesso.

Servendo su un piatto d’argento al Gruppo Riva, la migliore delle scuse possibili per porsi in una posizione del tutto lecita e difficilmente criticabile. Infatti, nella lettera inviata dall’Ilva al ministro dell’Ambiente Corrado Clini, si legge testualmente: “Questa azienda non può, allo stato, legittimamente formulare alcuna dichiarazione d’impegno, né elaborare un piano industriale, né delineare previsioni finanziare con gli impianti delle aree a caldo sottoposti a sequestro preventivo”. Questo è soltanto uno dei passaggi chiave della missiva. Ed è collegato a quest’altro passaggio, consequenziale al primo: “soltanto la piena e completa disponibilità dei beni consentirà di elaborare un responsabile piano industriale, formulare una previsione finanziaria e avviare quindi l’applicazione dell’Autorizzazione ambientale”. Per questo motivo, l’Ilva presenterà prossimamente all’Autorità giudiziaria un’istanza per ottenere il dissequestro delle aree a caldo. Del resto, già al termine della Conferenza dei Servizi dello scorso 18 ottobre, l’azienda dichiarò senza troppi giri di parole come l’agibilità degli impianti e quindi la revoca del sequestro fosse il presupposto indispensabile per iniziare a studiare un nuovo piano industriale per ottemperare alle prescrizioni dell’AIA. Che peraltro di per sé è già operativa.

L’Ilva ha inoltre più volte contestato le nuove prescrizioni: al momento, l’unico adempimento in corso, riguarda le operazioni di spegnimento dell’altoforno 1 che sarà fermato per lavori di rifacimento a partire dall’1 dicembre prossimo: una decisione che l’Ilva aveva già preso autonomamente tempo addietro. L’azienda rifiuta il fermo immediato delle batterie 3-4-5-6 delle cokerie, gli interventi strutturali sugli altiforni 2 e 4 per migliorare la depolverazione, l’avvio dello studio di fattibilità del progetto per la copertura del parco minerali che deve essere pronto entro 3 mesi, la copertura, sempre entro tre mesi, dei nastri trasportatori. Per l’Ilva però, questi interventi non sarebbero fattibili tecnicamente. Ad esempio, fermare contestualmente quattro batterie delle cokerie “comporterebbe problemi di approvvigionamento” e quindi di funzionamento anche degli altiforni che come affermato anche ieri dai sindacati, proseguono la loro marcia senza alcun introppo. Per non parlare poi della prescrizione che anticipa da luglio 2015 a luglio 2014, lo stop per rifacimento dell’altoforno 5 – che da solo contribuisce al 45% della produzione del siderurgico – che per l’azienda comporterebbe sicuri problemi occupazionali. Ma allo stato attuale delle cose, è ovvio che queste altro non sono che mere quisquiglie. Perché l’obiettivo dell’Ilva, adesso, è quello di creare, peraltro riuscendoci in pieno, lo scontro istituzionale tra la Procura di Taranto e il ministero dell’Ambiente.

Dunque, tra due apparati dello Stato: con la patata bollente che ora più che mai è nelle mani del ministro Clini, che non a casa ha convocato presso il ministero a Roma dopodomani, il presidente del Cda dell’Ilva Bruno Ferrante, per discutere il da farsi e fare il punto della situazione. Del resto, il dissequestro degli impianti è un provvedimento che la Procura non prenderà mai. Non solo: perché è pressoché scontato che l’istanza con la richiesta che i legali dell’Ilva si apprestano a presentare, sarà rispedita al mittente così come avvenuto per tutte le altre richieste sino ad oggi presentate. A ciò si devono aggiungere i provvedimenti dei custodi giudiziari, che in questi giorni stanno continuando la loro attività che nel giro di al massimo un paio di mesi, dovrà portare allo spegnimento degli impianti inquinanti.

L’Ilva, dunque, per ora si tira fuori mandando un messaggio molto chiaro a tutti: se gli impianti non ritornano in nostro possesso, non faremo alcun investimento richiestoci. Del resto, il Gruppo Riva sa che l’Italia ha bisogno della produzione d’acciaio che solo lo stabilimento di Taranto è in grado di assicurare. Il problema è dello Stato, che ha consentito per decenni tutto quello che poi si è verificato. E delle coscienze di moltissimi tarantini, che oggi fanno finta di niente. Lo scriviamo da mesi: Riva è pronto a chiudere baracca e burattini, alzando il  livello dello scontro sociale e chiamando sul ring vari apparati dello Stato. E pensare che, nonostante tutto ciò, siamo ancora circondati da gente che parla di possibilità di produzione di acciaio pulito o, addirittura, di nazionalizzazione dell’Ilva. Nonostante l’inquinamento, le malattie, le morti, si vuole ancora il siderurgico a Taranto: incredibile. Non riusciamo proprio a guardare oltre quei camini. Non riusciamo ad immaginare un futuro senza grande industria. Nonostante tutti questi anni, non abbiamo imparato ancora niente.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 8 novembre 2012)

 

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